26/04/2016

Ideologia del pluralismo e relativismo. E’ la fine dei valori?

Il mondo occidentale geme da tempo sotto il tallone di una ‘ideologia del pluralismo‘ che da una constatazione di per sé neutra – la pluralità delle culture – fa derivare un assoluto morale: la relatività di ogni valore o principio morale.

A questa ideologia, ribattezzata dallo storico britannico Matthew Fforde come ‘filosofia del vuoto‘, va imputata la ‘desocializzazione‘, quel fenomeno che produce una progressiva liquefazione dei vincoli sociali (1).

Per la filosofia del vuoto non esiste alcun principio universale in campo morale. Tutto è negoziabile, avendo natura storico-culturale.

Si crede così di assicurare un avvenire di tolleranza e pace per ogni diversità. L’ideologia del pluralismo rischia però di risolversi in un nichilismo – ne parlavamo qui – che, sgretolando ogni certezza, è sempre pronto a rovesciarsi nel suo contrario: un dogmatismo intollerante.

Gli esempi d’attualità che si potrebbero fare in tal senso sono moltissimi, non proviamo neanche ad abbozzare un elenco.

Peter L. Berger, forse il massimo sociologo vivente, ha ben colto il paradosso derivante dall’equiparazione di tutte le culture. “Se io credo che il cannibalismo sia sbagliato, credo ipso facto che la mia cultura non fondata sul cannibalismo sia superiore a tutte quelle in cui le persone si mangiano l’un l’altra – almeno sotto questo aspetto. Al contrario, l’individuo completamente tollerante è ipso facto un individuo per il quale nulla è vero, e in ultima analisi, forse, un individuo che non è nulla. E questo è il terreno su cui spuntano i fanatici” (2).

Annientare ogni fondamento della morale genera infatti un bisogno disperato di certezze, che può indurre ad abbracciare universi morali contraddistinti da un’intransigenza cieca e irragionevole. E così accade che alla tolleranza assoluta del relativismo si alterni l’intolleranza altrettanto assoluta del fanatismo (come mostra la tragica sorte dei giovani europei passati dal nichilismo all’ideologia jihadista).

Le contraddizioni interne al relativismo veicolato dall’ideologia del pluralismo – almeno di questo tipo di relativismo che conduce al nichilismo – sono stati evidenziate anche dal sociologo Raymond Boudon (3) e dall’antropologo Carlo Tullio-Altan.

In particolare Altan scriveva così del ‘relativismo culturale’, la tesi enunciata dal suo collega americano Melville Jean Herskovits (1895-1963), secondo la quale “i giudizi di valore che noi pronunciamo hanno alla loro base quel certo tipo di formazione culturale nel quale siamo stati educati, e valgono quindi solo nella sfera in cui tale cultura è valida, e cioè all’interno della nostra società. E siccome la nostra esperienza ci mostra con tutta evidenza che esistono molte altre società, che si ispirano a culture profondamente diverse, noi non siamo legittimati a pronunciare su di esse nessun giudizio di valore, in quanto questo può legittimamente attuarsi solo all’in­terno della nostra, e non riguardo ad altre forme di cultura e ai comportamenti nei quali queste si manifestano. In altri termini, la definizione di ciò che è normale o anormale, giusto o ingiusto, può avvenire legittimamente solo all’interno della nostra società nella quale condividiamo un comune metro dei valori, diverso da quello di altre società e culture” (4).

Come si vede, si tratta di idee oggi comunissime. Il problema, dice Tullio-Altan, è che “questa impostazione lasciava aperto un grosso interrogativo. Il problema dell’etnocentrismo si era fatto scottante di fronte al ge­nocidio attuato da Hitler nei confronti degli Ebrei, e ad altri com­portamenti del genere messi in atto dalla Germania nazista. Se a questo riguardo si fosse applicata la proposta teorica di Herskovits in base alla quale si afferma che ogni comportamento va giudicato all’in­terno di una certa società e unicamente in base alle sue categorie di valore, in tal caso quei comportamenti avrebbero trovato una piena giustificazione nell’ideologia razziale che faceva parte della cultura predominante nella società tedesca di quelli anni, ideologia che, in base al relativismo culturale, avrebbe dovuto essere vista come il solo metro di giudizio in tema di valori, che si potesse legittima­mente applicare nel caso in questione. E di conseguenza tali com­portamenti non avrebbero potuto essere legittimamente respinti e condannati in base ad altri e diversi punti di vista, come quelli, ad esempio, condivisi dalle società democratiche del tempo. E fu pro­prio per questo motivo che nel 1947, quando Herskovits si rivolse alla Commissione per i diritti dell’uomo delle Nazioni Unite – che era stata costituita per elaborare un codice internazionale che avrebbe dovuto condannare e rendere impossibile in futuro il verificarsi di eventi come quelli messi in atto dalla Germania nazista – e pro­pose l’inclusione in quel testo dei principi del relativismo culturale, si vide respingere la richiesta perché questa avrebbe teoricamente vanificato la stessa esigenza in base alla quale la Commissione era stata costituita per condannare i crimini nazisti. Questo episodio mostra a chiare lettere i limiti della concezione del relativismo cul­turale, che porta solo ad una sorta di laissez-faire sul piano etico-politico, e a un generico atteggiamento di tolleranza, in sé contrad­dittorio, perché costringe ad accettare anche l’intolleranza, e cioè il suo contrario” (5).

E l’ideologia del relativismo, in ambito bioetico, è alla base dei ragionamenti di chi è indiscriminatamente favorevole all’aborto o di chi si dichiara pro-choice, di chi sostiene che in certi casi uccidere una persona con l’eutanasia è lecito, di chi mette in dubbio la nozione di famiglia naturale...

Andreas Hofer

(1) Cfr. Matthew Fforde, Desocializzazione: la crisi della post-modernità, Cantagalli, Siena 2005.

(2) Peter L. Berger, Una gloria remota, Il Mulino, Bologna 1994, p. 73

(3) Si veda, di Boudon, il suo Il relativismo, Il Mulino, Bologna 2009.

(4) Carlo Tullio-Altan, Antropologia. Storia e problemi, Feltrinelli, Milano 1983, p. 72.

(5) Ivi, pp. 72-73


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