10/01/2015

Il matrimonio non è per tutti

Il matrimonio non è per ogni tipo di coppia o aggregato sociale.

Un altro degli pseudo argomenti più in voga, che va ad aggiungersi alla lista delle frasi fatte con cui i sostenitori Lgbt insistono con loro pretese, suona più o meno così:

Non è giusto dare benefici pubblici a delle persone in base alla loro utilità sociale o alla loro normalità, dunque anche agli omosessuali dev’essere concesso di sposarsi“.

Anche se quando si cerca di svolgere una banale analisi logica di frasi di questo tipo non si sa bene da dove partire, si dovrà senz’altro ricordare prima di tutto che il matrimonio non è un privilegio, ma una responsabilità. L’uomo e la donna, nel matrimonio, stabiliscono un vincolo, un patto legale (sacro, nel caso del matrimonio religioso) con il quale si impegnano a vivere in comunità di vita al fine di fondare la famiglia e dare possibilmente seguito alla continuità del genere umano.

In secondo luogo, chi sostiene che il matrimonio spetta di diritto a qualsiasi tipo di coppia (o, perché no, terna o gruppo di altro tipo) non coglie che è un’iniquità evidente trattare realtà sociali diverse come se fossero uguali. Si tratta di un principio lampante: una famiglia con sette figli, a basso reddito non è uguale ad una famiglia senza figli, con alto reddito, e così via. La ratio di questa differenza sta nel fatto, appunto, che alla famiglia viene riconosciuto il compito sociale di costituire la cellula accogliente della persona, dei futuri cittadini.

Uguale è la dignità di ogni singolo individuo rispetto agli altri. Anche dire che i “cittadini sono uguali davanti alla legge” o che “hanno gli stessi diritti”, va compreso in modo corretto: i diritti di un lavoratore adulto, con un alto reddito, celibe, sono oggettivamente diversi dai diritti di uno con basso reddito o pensionato, handicappato, e dai diritti di un minore, di una lavoratrice incinta ecc. ecc. La legge giusta DEVE trattare in modo uguale i casi uguali, ma altresì DEVE trattare in modo diverso i casi diversi.

Ma chi si prende l’onere di salvaguardare un bene comune (sempre che siamo ancora d’accordo che garantire il futuro della società umana tramite la generazione, la cura e l’educazione sia un bene comune, s’intende), risorsa collettiva che è addirittura fondante per la società intera, in una forma socialmente condivisa e vincolante come quella del matrimonio, deve essere aiutato dalla società stessa: è giusto che lo sia, è bene che lo sia, è logico che lo sia.

A meno che non si voglia negare l’assunto di base: “è bene che qualcuno si assuma il compito di garantire il seguito delle generazioni tramite l’istituto sociale della famiglia“. Se questo non è più vero, si aprono scenari di dibattito diversi e possiamo ridiscutere tutta la questione dal principio, ma fino a quando sarà socialmente un bene che qualcuno si prenda carico di dare vita e sostegno alle generazioni future, la famiglia naturale è – e resterà – il nucleo sociale fondamentale, da proteggere e salvaguardare con ogni mezzo.

Nel voler sostenere che essere genericamente “una coppia” (o altro tipo di gruppo sociale) sia di per sé l’unico requisito sufficiente per accedere all’istituto del matrimonio, si perde di vista che la questione non è (e non può essere) la legittimità di ciò che avviene in una relazione tra adulti consenzienti, quanto piuttosto l’equiparazione forzata di realtà sociali profondamente diverse per costituzione, finalità, capacità di garantire i diritti inviolabili dei bambini e coerenza con l’assetto generale della società.

Se il matrimonio non è più quello tra uomo e donna, ma tra persone che generalmente “si amano” allora non si vede perché negarlo a tre o più amanti che decidano di vivere insieme, non necessariamente di sesso diverso, o a quattro, cinque, e via dicendo, con conseguenze evidentemente paradossali ed insostenibili: quante forme di matrimonio possibili si possono inventare?

Chi ragiona in questo modo, perde di vista che gli eventuali benefici legati al matrimonio non sono concessi ai singoli cittadini, bensì alla famiglia, ovvero alla forma sociale con cui uomo e donna si sono impegnati a garantire il futuro della società tramite il seguito delle generazioni.

Di più. La normalità e la finalità in questione non sono del singolo individuo, quanto piuttosto quella della coppia che si unisce col vincolo del matrimonio con lo scopo implicito di poter garantire la cellula sociale primaria ed idonea per accogliere la nuova vita.

Per questo, come aveva già spiegato l’antropologo Claude Lévi-Strauss, “Se è vero che la natura ha espulso l’uomo, e che la società persiste ad opprimerlo, l’uomo può almeno rovesciare a proprio vantaggio i poli del dilemma, e ricercare la società della natura per meditare in essa sulla natura della società [...] La società appartiene all’ambito della cultura, mentre la famiglia è l’emanazione, a livello sociale, di quei requisiti naturali senza i quali non ci potrebbe essere la società, né, in fondo, il genere umano. L’uomo può vincere la natura solo conformandosi alle sue leggi. Perciò la società deve dare alla famiglia un quid di riconoscimento“. (C. Lévi-Strauss, Razza e storia e altri studi di antropologia, Einaudi, pp. 92 e 176).

 Alessandro Benigni

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