06/05/2013

Il primo aborto è “abortire la madre”. La madre abortita abortisce il figlio

Intervista al Prof. Carluccio Bonesso

Prof. Bonesso, lei afferma spesso che il primo aborto è “abortire la madre”. In che senso?

Prima di rispondere, vorrei renderla partecipe dell’emozione che mi prende dentro nell’affrontare queste problematiche: un profondo senso di tristezza ed una grande compassione per queste donne. Non viene mai sufficientemente scandagliato lo stato d’animo d’una donna che sta affrontando questo dramma: paura, tristezza, senso di abbandono e solitudine, ma anche rabbia per un partner il più delle volte assente, vigliaccamente lontano. Quindi via da me ogni pur minimo atteggiamento di giudizio, perché l’aborto è sempre una sconfitta della vita e dei protagonisti.
E vengo alla risposta. Nella mia esperienza di contatto con donne incinte ho notato sempre un particolare fatto linguistico costante. La donna incinta dice sempre e pensa di aspettare un bambino. La cosa è di una semplicità disarmante, giacché essa non afferma di esser incinta di un embrione o di un feto, ma di un “bambino”. Dietro questo parlare e pensare vi è un evento potente, ovvio per le donne, ma nascosto alla psicologia maschile. Essa non è più una donna, ma una madre. Ha cambiato identità: da donna a madre! Donna è un concetto di genere, mentre madre è un concetto relazionale. Si è infatti madre in relazione ad un figlio. Ed una volta madri, lo si è per sempre, perché attiene alla propria identità.
Ed ecco esplicitato il dramma dell’aborto. Dal punto di vista della donna incinta l’aborto è la sconfitta della sua identità materna, il fallimento di una madre. Ecco perché si può dire che il primo aborto è “abortire la madre”. E le ferite identitarie possono essere devastanti.

– La madre abortita abortisce il figlio?

Il fatto è speculare o costituisce le due facce d’una stessa medaglia. Interrompere la gravidanza è contemporaneamente un negare ed umiliare il proprio esser madre, cioè la doppia sconfitta di una vita negata ed il fallimento della generatività materna. Non va dimenticato, come invece solitamente si fa, il ruolo del partner. L’aborto non è problema solo della donna, perché se si osservasse il fenomeno attentamente, si vedrebbe quanto spesso l’omissione e l’assenza maschile sia decisiva e causa della solitudine paurosa in cui viene lasciata la madre.

– Quali sono le difficoltà della donna a dire di sì al figlio a livello psicologico?

Rispetto ad ogni compito o evento ogni essere umano si trova dentro gli estremi emotivi della paura/fiducia. Ciò che va ad affrontare può essere percepito come un pericolo o come una novità. Se è la percezione del pericolo a predominare, allora si attiverà il potente cervello della paura che innescherà sentimenti ostili e/o di fuga.
Al contrario la novità positiva attiverà il cervello della ricerca il quale genererà fiducia, curiosità e favore.
Ogni gravidanza richiede un’assunzione di responsabilità: l’andare verso “il prendersi cura”. Se l’evento è stato cercato e scelto, la conseguenza diventa un compito da affrontare. Al contrario tutto può diventare minaccia o evento spiacevole ed imprevisto. In ambo i casi si affaccia nell’anima della donna incinta l’ansia che ogni gravidanza più o meno trasporta con sé.
Vi è il vissuto corporeo e il rapporto modificato con l’ambiente circostante, fatto di un corpo che cambia forma e peso, accompagnato dalle domande: “Potrò continuare a piacere? Tornerò come prima?
Poi c’è l’ansia per il figlio che dovrà nascere: “Sarà normale? E se non lo sarà, perché? In cosa avrò sbagliato?
E quindi anche l’ansia legata al rapporto con il partner: “Continuerò a piacergli? Come farò per il sesso?
Spesso le donne vivono la sessualità in opposizione alla maternità, giacché in questo momento diminuisce il soddisfacimento e la frequenza dei rapporti sessuali può abbassarsi per effetto dell’accudimento del figlio.
Altri aspetti regressivi sono legati al riemergere di comportamenti caratteristici dell’infanzia, con il bisogno di accudimento e coccole richiesti con insistenza, le voglie, gli sbalzi d’umore, il ricorso alla madre o il ritorno a conflitti assopiti nei suoi riguardi.

– Come si possono aiutare le donne in difficoltà ad accettare il figlio concepito?

A mio avviso due sono le strategie da seguire contemporaneamente. La prima è quella che descrive le emozioni positive che ogni madre può testimoniare del proprio vissuto di gravidanza e l’altra ciò che pensano le donne dell’aborto e ciò che esse stesse dicono dopo averlo praticato.
Premesso che non esiste una gravidanza uguale ad un’altra dal punto di vista emotivo, il vissuto della donna incinta è un mosaico di gioia, attesa, fantasia, sogni, euforia, stupore, ma anche di sentimenti e momenti difficili o negativi. E poi le nausee, la dieta, la paura, l’ansia, gli sbalzi d’umore, i timori.
I sentimenti positivi raccontano di un “coronamento del sogno di coppia”, di “gravidanza contagiosa” dopo aver saputo che un’amica era incinta, di “invidia delle altre donne incinte”, di sensazione che “generare un figlio è la cosa più bella che un essere umano possa fare”, di “partecipare alla creazione”, di “realizzarsi come donna”, di “speranza di gratificazione futura”.
C’è chi racconta: “mi sono sentita subito madre”, e “ho sentito che lui era più importante di me”. “E quando l’ho avuto in braccio ho sentito che era la cosa più grande ed importante che mi potesse accadere, ma anche il peso di crescerlo”. Allora ho avuto “voglia di essere autonoma da mia madre ed avere tutta la mia famiglia per me”.
Poi ci sono anche i racconti di sentimenti contrastanti: “ho avuto paura di non farcela, ma sapevo che c’era mio marito con me”, “Appena incinta, ho provato una grande tenerezza e paura per un compito troppo grande per me”, oppure “strano che potesse succedere a me, poi ho pianto, riso e pianto, emozione bella e grande”.
Ed un’altra insiste sullo “stupore e poi mi son sentita madre, ho avuto paura per la gravidanza e che non fosse sano” e poi “gioia, tanta gioia, che ancora adesso al pensarci riprovo”.
Tutte queste frasi, fedelmente riportate, ci raccontano di un evento dalla ricchezza emotiva incredibile. Il comunicarlo ad una donna che pensa all’aborto può farle riscoprire un lato della sua umanità femminile inibito dalla paura.
Ma cosa direbbe una madre ad una donna presa dal dramma dell’aborto?
Ecco alcune risposte che ho raccolto e riporto puntualmente: “le ho detto: non abortire, lo tengo io”.
Una mia amica giovane per paura ha abortito. Anni dopo si è sposata, anche bene, ed ha avuto due figlie. Mi ha detto però che non è felice al pensiero di quello che ha fatto.”
Mia cognata mi ha confidato: mi ha fatto abortire (mio marito) e mi ha fatto andare da sola. Non me lo perdonerò mai!” Notare che non dice non glielo perdonerò, ma non me lo perdonerò!
Io le direi: non farlo. La vita è preziosa in qualunque modo essa sia. L’aborto non è rimarginabile.
Dopo l’aborto, sebbene fosse spontaneo, mi sono sentita svuotata.
Quando mi hanno chiuso le tube per grossi problemi, sono stata molto male, perché il mio corpo non avrebbe mai più generato.

– Ci può riferire alcune sue esperienze personali in proposito?

Negli anni ottanta ho praticato intensamente la psicoterapia, poi lasciata per l’insegnamento, ed ho constatato quanto alta sia l’incidenza dell’aborto in casi di nevrosi. A volte la concomitanza abortiva era quasi una costante.
Ricordo spesso nei miei racconti il caso del blocco del braccio sinistro di una signora che avevo aiutato anni prima per problemi d’ansia. Questa mi aveva richiamato perché soffriva di un blocco al braccio sinistro, resistente ad ogni terapia del caso. Analizzando con l’elettromiografo l’attivazione del braccio in riposo, riscontravo una tensione dieci volte più intensa dell’altro braccio. Al che mi ero impegnato ad istruirla a rilassare il braccio in oggetto. Dopo varie sedute qualcosa migliorava, ma non secondo le mie aspettative. Conversando affabilmente fra un esercizio e l’altro, improvvisamente la signora si ricordava di aver l’anno prima abortito su insistenza del proprio ginecologo e marito, in seguito a cure per una gravidanza scambiata per menopausa. Allora le chiedevo se si ricordasse con quale seno iniziasse per il passato ad allattare il figlio che ora era già grandicello. Avendo ricevuta la risposta d’essere il sinistro, le facevo notare che il braccio bloccato era proprio quello. La constatazione provocava immediatamente il gesto di portare le mani ai capelli ed un pianto dirotto. La signora aveva immediatamente realizzato esservi un qualche rapporto fra il suo braccio sinistro teso e l’aborto. Quello che seguì non fu più l’insistere sul rilassamento del braccio, ma il percorso di elaborazione della perdita d’un figlio non nato.

Nella mia attività di ascolto nelle scuole superiori (Sportello dell’Ascolto) ho poi notato un’altra forma di “aborto”, se così si può chiamare. Spesso in occasione di crisi adolescenziale acuta, mi sono imbattuto nei “nati per sbaglio”. Ci sono genitori che hanno, in casi di gravidanza indesiderata portata a termine, l’infelice idea di raccontare ai figli che “non li aspettavano, ma che poi avevano deciso di tenerli”. Si dimenticano, o peggio non sanno, che ogni essere umano ha il diritto di sentirsi nato da un atto d’amore. Tali informazioni diventano devastanti nei momenti cruciali di passaggio della vita. Far sentire un figlio “nato per sbaglio” è già una forma psicologica di aborto ed è amore risparmiargli questa sofferenza.

Per concludere e senza indulgere a giudizi di sorta nei riguardi delle donne che abortiscono, amo ripetere che nella quotidiana lotta tra la vita e la morte, ogni “non nato” è una sconfitta della vita, ed ogni “nato in più” è la vittoria dell’amore.

Il Prof. Carluccio Bonesso, laureato in Pedagogia, indirizzo psicopedagogico (studi presso l’Università Cattolica di Milano e l’Università di Genova), è specializzato in Analisi e modificazione del comportamento, e grafologia. Ha praticato negli anni ottanta la psicoterapia ad indirizzo comportamentale. È stato insegnante nella scuola primaria e poi docente di scienze sociali e filosofia nelle scuole superiori. Attualmente si occupa di formazione professionale e di educazione emozionale.
Ha pubblicato Per forza o per amore? (2002) ed è coautore con M. Cervi di Emozioni per crescere (2008).

di Anna Fusina

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