08/10/2018

Il rischio del totalitarismo oggi: uno sguardo al passato

Le ideologie politiche moderne, di qualsiasi colore, hanno presentato, alla prova della Storia, una spiccata tendenza alla deriva totalitaria; tendenza che è intimamente legata alla loro natura utopica e ne costituisce l’esito più coerente. Come diceva Paul Claudel, se l’uomo tenta di immaginare il paradiso in terra, il risultato immediato è un molto rispettabile inferno. Ma qual è il criterio-base, il parametro fondamentale che ci consente di individuare, in un sistema di pensiero, la carenza dei requisiti necessari alla ricerca del bene comune e quindi il suo potenziale antiumano?

La risposta è semplice: una corretta concezione antropologica. Bisogna verificare che l’impostazione del rapporto tra l’uomo e il reale segua la giusta prospettiva. La considerazione della persona umana alla luce della verità implica la perenne e ineliminabile possibilità di scegliere tra bene e male: il libero arbitrio. È questo il punto di partenza sicuro per accertare se una dottrina ha un fondamento razionale oppure utopico. Se una determinata teoria, nel suo complesso sistematico, elabora un progetto politico, economico o sociale da perseguire come traguardo definitivo della vita comunitaria, rivela chiaramente una concezione riduzionistica della libertà umana. È utopico, quindi irrazionale, quindi contrario alla natura umana, pensare che un “sistema” di cose, in qualsivoglia campo dell’esistenza, possa raggiungere uno stato di perfezione tale da condurre l’uomo alla totale soddisfazione delle proprie esigenze e perciò alla piena felicità. Un simile pensiero è irrazionale perché, come si accennava, capovolge la giusta prospettiva che esiste tra soggetto e oggetto: è l’uomo che genera il sistema, non viceversa; e poiché l’uomo, essendo libero, non agisce in modo meccanicistico ma esercita costantemente la facoltà di scelta, non può essere ridotto a semplice ingranaggio del sistema in modo tale da far sì che a un programma perfetto possa corrispondere un uomo perfetto.

Questa visione del mondo, che è tipica della cultura moderna, ha prodotto la trasformazione del perseguimento della giustizia da ideale in ideologia. La differenza non è puramente nominalistica: «L’ideale, infatti, è il modello di riferimento che costituisce motivazione e aspirazione, ma che nello stesso tempo si sa che non può mai essere completamente raggiunto. O, se è raggiunto, non s’identifica con la perfezione. L’ideologia, invece, è la pretesa di racchiudere il reale nella propria “volontà di potenza” per poterlo ricostruire a proprio piacimento. È una pretesa, questa, che nasce dalla convinzione che la perfezione è possibile, è raggiungibile già in questo mondo e che ogni limite può svanire nell’affermazione della propria idea» (C. Gnerre, Le radici dell’utopia, Chieti 2006, p. 58). Non a caso, proprio riguardo al fenomeno totalitario, Hannah Arendt scrive che l’ideologia «è letteralmente quello che il suo nome sta a indicare: è la logica di un’idea. La sua materia è la storia a cui l’“idea” è applicata [...]. L’ideologia tratta il corso degli avvenimenti come se seguisse la stessa “legge” dell’esposizione logica della sua “idea”. Essa pretende di conoscere i misteri dell’intero processo storico – i segreti del passato, l’intrico del presente, le incertezze del futuro – in virtù della logica inerente alla sua “idea”» (Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Torino 2009, p. 642).

Il “peccato originale” di molte delle moderne dottrine filosofico-politiche è quello di pretendere l’adeguamento della realtà alle proprie astrazioni. Non è un caso, pertanto, che l’applicazione pratica di alcune ideologie abbia lasciato dietro di sé una lunga scia di sangue. Con il consolidamento della modernità, intesa come categoria culturale, si è verificato un paradosso: abbandonato gradualmente ogni riferimento metafisico, la ricerca filosofica si è incentrata su un antropocentrismo radicale; ma questo processo ha portato a una crescente sfiducia nell’essere umano, nonostante la divinizzazione illuministica della ragione, e ha preso piede sempre più la convinzione che dovesse essere la società a cambiare l’uomo, a migliorarlo. È nato il mito della società ideale e gli uomini vi hanno riposto la propria fede, «sognando sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno di essere buono», come dice Eliot nei suoi Cori della Rocca.

Ora, come si accennava, questa impostazione del rapporto tra l’uomo e il mondo, e prim’ancora questo atteggiamento nei confronti del reale, costituiscono un tratto tipico della modernità; ma ciò non vuol dire che una simile forma mentis nasca con l’età moderna. Come ha messo in luce la riflessione di Eric Voegelin, questo approccio ideologico alla realtà ha radici ben più profonde e un’origine di natura religiosa da ravvisare nello gnosticismo. Infatti è dal dualismo gnostico tra spirito e materia (l’uno positivo, l’altra negativa) che deriva il primo atteggiamento propriamente filosofico di radicale avversione alla realtà che, successivamente, troverà terreno fertile nelle utopie moderne:
«Il fine dello gnosticismo parusistico è di distruggere l’ordine dell’essere, che è avvertito come difettoso ed ingiusto, e, grazie alla forza creatrice dell’uomo, di sostituirlo con un ordine perfetto e giusto. [...] Quindi, affinché il tentativo di creare un mondo nuovo non appaia del tutto insensato, dev’essere cancellata questa caratteristica di dato che è propria dell’ordine dell’essere: l’ordine dell’essere deve invece venire interpretato come qualcosa che è essenzialmente soggetto al controllo dell’uomo» (E. Voegelin, Il mito del mondo nuovo. Saggi sui movimenti rivoluzionari del nostro tempo, Milano 1976, pp. 112-113).

Se guardiamo alle nostre democrazie contemporanee, come non vedere il riflesso di questa insoddisfazione? Eppure abbiamo visto a cosa conduce...

Vincenzo Gubitosi

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