28/08/2016

La carne è fragile. Ed è un bene!

Caro infirma est. La carne è debole. A dirlo non è solo il Vangelo. Lo attesta la terra stessa, in questi drammatici giorni funestati dal terremoto che ha spazzato via, in pochi terribili istanti, centinaia di vite.

Di fronte a un tale strazio, come non richiamare le parole di Simone Weil sulla costitutiva fragilità dei nostri poveri corpi? «La nostra carne è fragile: qualsiasi pezzo di materia in movimento può trafiggerla, lacerarla, schiacciarla, oppure inceppare per sempre uno dei suoi congegni interni».

In uno dei suoi aforismi più folgoranti, Pascal scrive: «Tra noi e l’inferno e il cielo c’è solo la vita, che è la cosa più fragile del mondo».

Fragilis viene dalla stessa radice di frangere (rompere): la fragilità caratterizza quel che è facile a rompersi, quanto può frantumarsi, andare a pezzi. Fragile è ciò che oppone debole resistenza all’urto dell’esistente, mettendo così a rischio la propria consistenza originaria.

È la realtà della nostra esistenza a imporci di convivere con questa scomoda verità: la vulnerabilità è propria dell’essere umano, colui che vive nell’orizzonte della finitudine, la sua carne trovandosi esposta al pericolo costante della ferità.

Oggi più che mai, nondimeno, la debolezza della carne sembra fare scandalo. Tutto sembra cospirare contro l’homo fragilis. La fragilità umana viene declassata a deplorevole incidente, come accade ad esempio nella filosofia del postumano, che si declina a partire dal rifiuto della debole, molle carne che innerva il nostro corpo, rendendolo agilmente vulnerabile dagli agenti esterni. Cosa impedisce allora, dicono i postumanisti, di potenziare il corpo umano corroborandolo con metalli duri, più resistenti, in grado di sopportare le pressioni esterne? E perché non implementare anche le prestazioni cognitivo-sensoriali dell’essere umano?

Una simile prospettiva va diffondendosi anche in campo medico, arrivando ad elevare la medicina a idolo. Si registra così un nuovo imperativo, quello della salute ad ogni costo, che si diparte proprio dal rifiuto della fragilità. Non si tratta più di un’ottica riparativa, fa osservare lo psicologo Miguel Benasayag, ma di un’ottica salvifica in forza della quale «qualsiasi fragilità deve essere eliminata». (1)

Il rifiuto della malattia e di qualunque imperfezione è congenita a interventi corporei che portano a congedarsi dall’umano stesso, sfociando nella negazione della mortalità e della corporeità, sempre più caratterizzata, questa, dall’ibridazione tra organico e inorganico.

La morte, in questa visione, non è più l’oraziana ultima linea rerum. Più che l’estremo limite («La tomba ai mortali di tutto è confine!» canta Violetta morente nella Traviata) essa appare piuttosto come una «prestazione organica disfunzionale» a cui ovviare con la tecnologia, sicché si può ben dire che per il postumanesimo la morte è una malattia — la sola autentica patologia, a ben vedere — che reclama per sé un’adeguata terapia. Anche la vecchiaia, da questo punto di vista, non è altro che un’infermità da esorcizzare per via tecnica. (2) La vecchiaia può essere curata, come è convinto Aubrey de Grey, il biochimico inglese impegnato nel Progetto SENS (Strategies for Engineered Negligible Senescence – Strategie per l’Ingegnerizzazione di Livelli Trascurabili di Senescenza) che si propone di trattare l’età attraverso un complesso insieme di procedure in grado di sconfiggere la senescenza.

Rivivono, in questa avversione per la debolezza, antiche e mai sopite suggestioni dell’umanità. «È l’antico sogno gnostico», scrive il filosofo Luigi Alici, «di liberare il centro della soggettività da qualsiasi defaillance di natura endogena». (3)

Lo gnostico è radicalmente avverso all’idea di limite. Non sopporta che vi sia distanza tra umano e divino né accetta la finitudine che testimonia, più di ogni altra cosa, la sua condizione di creatura. L’ideologia postumanista, a ben vedere, non è altro che una «tecnognosi» attraversata dall’idea, tipica della gnosi, di prescindere dalla finitezza corporea del genere umano. Essa aspira a sottrarsi al duplice vincolo — tradizionalmente considerato indisponibile — della nascita e della morte. (4)

Questa guerra ai limiti dell’umano si svolge all’insegna di una continuità nella storia occidentale. Mentre nella prima metà del XX secolo il marxismo utopico progettava la creazione di un homo novus, ora si cerca effettivamente di fabbricare l’«uomo nuovo» per tramite di una «antropotecnica» che potendosi avvalere dei metodi e dei progressi biotecnologici, farmacologici e medici prepara l’avvento di una umanità «geneticamente modificata» e longeva. (5)

Non ci si avvede a sufficienza, temiamo, di quanto la salute individuale e quella sociale abbiano bisogno di incontrare un limite. L’arroganza era ben nota già nell’antica Grecia. Fu chiamata hybris (tracotanza, arroganza). I Greci presentirono l’avvento dell’epopea occidentale con la sua ebbrezza dell’illimitato. Ma sapevano anche che le opere dell’hybris non durano a lungo. In Erodoto trova conferma l’idea che l’eccesso (hybris) richiama la catastrofe (némesis). Il mito dell’orgoglio punito è un tema che attraversa la letteratura antica.

Ce lo ricorda anche Luigi Zoja nella sua Storia dell’arroganza: tutta la storia greca può essere letta come il tentativo da parte di una razionalità sfrenata, illimitata, di sostituirsi alla regola del limite trascendentale e invalicabile. Un tentativo regolarmente sanzionato dalla dea Nemesi.

Un antidoto a questi sogni allucinati c’è. Consiste in questo: nel riscoprire la preziosa solidarietà tra umanità e fragilità, nel ritornare a prendersi carico della debolezza, nel concedere uno spazio all’imperfezione.

Andreas Hofer


(1) M. Benasayag, La salute ad ogni costo, Vita e Pensiero, Milano 2010, p. 9.

(2) Cfr. Andrea Vaccaro, L’ultimo esorcismo. Filosofie dell’immortalità terrena, EDB, Bologna 2009.

(3) L. Alici, Il fragile e il prezioso, Morcelliana, Brescia 2016, p. 32.

(4) Cfr. Antonio Allegra, Trasformazione e perfezione. Temi gnostici nel postumanesimo, in Gabriele De Anna (a cura di), L’origine e la meta. Studi in memoria di Emanuele Samek Lodovici con un suo inedito, Ares, Milano 2015, pp. 151-168.

(5) Cfr. Remo Bodei, Limite, Il Mulino, Bologna 2016, pp. 22-23.

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