24/12/2018

La Divina Commedia: scrigno del Medioevo che ci svela una verità senza tempo

“Grandezza di Dio e dignità dell’uomo”, basterebbero queste poche battute per definire efficacemente lo spirito di un’epoca, quella medievale in cui, per la prima e forse unica volta nella Storia, convivono  armoniosamente due visioni apparentemente opposte:  teocentrismo e antropocentrismo, per di più in intima connessione e reciproca dipendenza. Un’epoca in cui l’uomo è pienamente consapevole di svettare al di sopra di tutti gli esseri viventi in quanto cosciente di essere stato voluto e creato da un “Tu” che l’ha chiamato amorevolmente alla vita e, come nell’esperienza di un amore grande, anzi, in questo caso, di un amore “primordiale”, l’io prende coscienza di sé, della sua dignità e matura, proprio  all’interno del rapporto con il Tu che lo costituisce. Una consapevolezza profonda, particolarmente radicata nell’uomo medievale (dal più dotto al più semplice) e che troviamo mirabilmente espressa nella poetica di Dante.

L’importanza del fattore umano, la positività del reale, sono elementi che permeano le opere dantesche fino a caratterizzarle, e manifestano l’esperienza profonda, personale, umana e spirituale  del rapporto con un Dio che si è reso non solo “manifesto” ma “incontrabile” nel dato reale, venendo a vincere in sé, ogni contraddizione, ogni dissidio tra carne e spirito, risolvendo, anzi, in se stesso due realtà da sempre considerate in un perenne e inevitabile rapporto conflittuale. Lo sguardo di Dante è, insomma, lo sguardo dell’uomo medievale che percepisce il reale come luogo della teofania di Cristo e per questo ne ha una visione positiva, motivo per cui il Poeta indica in un elemento “umano troppo umano” (direbbe qualcuno...) ovvero il desiderio, il trampolino di lancio privilegiato per arrivare a Dio.

Una dinamica, quella del desiderare, che è mirabilmente descritta nel IV Trattato del Convivio in cui viene individuato in quest’atto che caratterizza l’uomo, rispetto a tutti gli altri esseri viventi, il motore che lo indirizza verso la Meta. Qui i desideri umani sono paragonati agli strati di una piramide, ciascuno dei quali è necessario per arrivare a prendere coscienza del desiderio del bene per eccellenza, Dio stesso. In quest’ottica, nessuna delle cose agognate, nemmeno la più semplice, come il “pomo” desiderato dai “parvuli” a cui si fa riferimento nell’opera e che è uno dei desideri più elementari che si possa sperimentare, è inutile perché rappresenta l’ulteriore gradino di una scalinata che porta direttamente a Dio (Convivio IV, XII, 14-16). Allo stesso modo, Beatrice, per Dante, rappresenta uno dei gradini fondamentali in questa straordinaria scalata verso Dio e per questo non ha bisogno di essere rinnegata come Laura, la donna amata da Petrarca. Dante, insomma, volendo arrivare a Dio, comprende che non può perdere l’amore per la sua donna che è uno straordinario trampolino di lancio verso di Lui. Anzi egli ha l’ardire di portare l’amore di Beatrice dentro il cuore di Dio, cucendo l’amore umano dentro il cuore del Creatore, spingendosi fino a presentare la sua donna, come colei che gli fa fare esperienza del Divino.

Ciò è estremamente evidente nel I Canto del Paradiso in cui Dante fissa lo sguardo di Beatrice che a sua volta fissa le sfere celesti: «Beatrice tutta nell’etterne rote/ fissa con gli occhi stava/ e io in lei le luci fissi di là su rimote»: è nello sguardo della sua amata, irradiato dalla luce divina, che Dante ritrova l’unità del suo io, perché negli occhi di Beatrice viene stabilito, in quel momento, il contatto tra cielo e terra. Dante sperimenta l’unità di sé, della sua dimensione umana e spirituale, attraverso lo sguardo che Beatrice gli rimanda della sua esperienza del divino che si sta compiendo in quel preciso istante, perché Beatrice, nell’opera di Dante, rappresenta la massima realizzazione dell’umano, trasfigurato in Dio. Questo ci fa comprendere come per il sommo poeta, l’uomo non si salvi “nonostante” la realtà ma “attraverso” la realtà, perché, grazie al Mistero dell’Incarnazione, la realtà assume un significato altissimo divenendo segno di Dio stesso. Quindi in Dante e  nel Medioevo, la concezione della positività della realtà deriva dalla consapevolezza che l’uomo, più di tutte le creature, ha una sua dignità, un suo valore irriducibile, in quanto voluto nella sua singolarità da Dio. Un’Alterità che non solo non lo annulla ma che lo esalta in quanto lo fa essere a immagine e somiglianza Sua. Da qui l’invito costante, posto alla fine di ognuna delle tre Cantiche, ad alzare lo sguardo verso le stelle perché solo guardando  il cielo e  le stelle, solo sollevando lo sguardo verso Dio, l’uomo, ci dice Dante, entra  in rapporto col proprio io, perché può fare davvero esperienza di sé, unicamente attraverso la sua origine: l’Infinito.

Manuela Antonacci

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