12/09/2018

L’autodeterminazione elevata a valore supremo

Abbiamo pubblicato una serie di post (primo, secondo, terzo) per riflettere e approfondire l’importanza del dare il giusto peso e significato all’autodeterminazione. E abbiamo capito le condeguenze morali e sociali della idolatria dell’autodeterminazione cui oggi stiamo assistendo. Per capire fino in fondo cosa significa trasformare il principio di autodeterminazione in un diritto fondamentale della persona, bisogna partire dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale: «La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali».

La Corte fa qui riferimento a quei princìpi che «appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana» (Corte Cost., sent. 29/12/1988 n. 1146). In occasione dell’incontro con il Tribunale costituzionale della Repubblica di Polonia, nel 2006, la Delegazione della Corte Costituzionale stilò una Relazione in cui ricordava che nell’ordinamento italiano «la libertà personale rappresenta il primo dei diritti espressamente connotati dal carattere della inviolabilità e si inserisce nell’alveo di quei “diritti dell’uomo” che costituiscono i valori fondanti della personalità umana e sono condizioni necessarie per la democrazia» (Delegazione della Corte Costituzionale, I diritti fondamentali nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, Varsavia 30-31 marzo 2006).

È di tutta evidenza, quindi, che la libertà personale rientra tra i princìpi supremi dell’ordinamento, dal contenuto irretrattabile; ne deriva che nel momento in cui la Corte Costituzionale eleva a diritto fondamentale della persona l’autodeterminazione bioeticamente intesa, la inserisce implicitamente nel nucleo di un principio costituzionale supremo rendendola, perciò, altrettanto inviolabile. Non regge più, a questo punto, l’impostazione tradizionale secondo cui «il diritto di libertà personale non si presenta affatto come illimitato potere di disposizione della persona fisica» (Corte Cost., sent. 19/6/1956 n. 11).

Infatti, si potrà anche obiettare che in certi casi i princìpi supremi vanno contemperati con altri valori costituzionali di pari rango, come, per le questioni bioetiche di primaria importanza, la dignità umana e l’habeas corpus; ma si tratta di un’obiezione fragile, alla luce dei recenti sviluppi giurisprudenziali. Se le due più alte Corti dell’ordinamento giuridico hanno proclamato inviolabile il diritto all’autodeterminazione e, come specificato dalla Cassazione, finanche in grado di permettere il «sacrificio del bene della vita», quale spazio rimane per la dignità umana? Se con l’autodeterminazione “terapeutica” la persona può disporre anche della vita (il bene indisponibile per eccellenza, almeno fino al XXI secolo), come può la dignità, che è evidentemente un attributo della vita, costituire un limite?

È una questione di logica: la base filosofica del principio di autodeterminazione è rappresentata dall’antropologia funzionalista, per cui la vita non è un valore in sé, ma la sua qualità dipende dallo “stato funzionale” in cui si trova. Al singolo soggetto interessato è rimesso il giudizio esclusivo sulla qualità della vita, nella piena libertà di decidere quando questa sia degna di essere vissuta o meno. Perciò se il criterio della dignità può essere utilizzato dal singolo per disporre della propria vita, a fortiori potrà essere invocato per legittimare qualunque pratica che abbia ad oggetto il proprio corpo, purché avvenga nel rispetto del consenso informato e del neminem laedere (non danneggiare nessuno). Con un simile cambiamento di prospettiva nell’ordinamento giuridico si è generato un precedente, non solo giurisprudenziale, in grado di giustificare la manipolazione della realtà oggettiva per tutto ciò che ricade sotto il potere dispositivo dell’autodeterminazione.

In sede giurisdizionale si potranno escogitare specifici rimedi per impedire tale deriva, e sarà cosa buona e giusta; ma incoerente. Fintanto che sarà conservato un orientamento giurisprudenziale di questo tipo, incoraggiato dai vertici della giurisdizione ordinaria e costituzionale, ogni tentativo di limitare l’arbitrio del singolo in nome della dignità umana è destinato a scontrarsi con la sancita supremazia del diritto all’autodeterminazione. Volendo poi applicare questo principio al corpo della donna nel contesto della gravidanza, viene da chiedersi come sia logicamente possibile vietarle, per esempio, la maternità surrogata o la selezione eugenetica dell’embrione, come già avviene in molti altri Paesi. Anche (e soprattutto) in questo caso valgono le argomentazioni sviluppate sopra: se l’autodeterminazione non può incontrare limiti quando il soggetto titolare intende esercitarla per disporre della propria vita, dovrà essere ugualmente libera quando finalizzata alla disposizione dell’embrione che, di fatto, già non riceve alcuna tutela effettiva da parte dell’ordinamento.

Del resto, è questa una conclusione obbligata, se ricordiamo che la Corte Costituzionale ha dato cittadinanza giuridica al caposaldo dell’antropologia funzionalista, quando nel 1975 ha dichiarato che «non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare» (Corte Costituzionale, sent. 18/2/1975 n. 27). Per mezzo di questa divaricazione concettuale il giudice delle leggi non ha solo spianato la strada alla legalizzazione dell’aborto, ma più sottilmente ha gettato le basi teoriche per l’evoluzione giuridica di cui si sta trattando e che si viene realizzando solo ora.

Se la persona umana è legittimata a disporre di sé fino al sacrificio della vita, a maggior ragione dev’essere lecito disporre di una “sostanza biologica” che persona non è; e, si badi bene, disporre in qualsivoglia maniera: perché se l’ordinamento consente la soppressione dell’embrione, ossia la disposizione della sua vita da parte della madre, non è più in grado, sul piano logico, di vietarne un utilizzo diverso. Il massimo grado di disposizione è già stato raggiunto, e il passo per la legalizzazione di nuove forme di manipolazione della vita prenatale attende solo un adeguato input.

In questa prospettiva emerge prepotentemente il rapporto contraddittorio tra la legge 194/78 sull’interruzione volontaria della gravidanza e la legge 40/2004 sulla fecondazione assistita. Questa incoerenza dell’ordinamento italiano è stata puntualmente segnalata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, a proposito del divieto sancito dalla legge 40 in merito alla diagnosi preimpianto (ovvero: selezione eugenetica dell’embrione), ha osservato che, in materia, «il sistema legislativo italiano manca di coerenza. Da un lato, esso vieta l’impianto limitato ai soli embrioni non affetti dalla malattia di cui i ricorrenti sono portatori sani; dall’altro, autorizza i ricorrenti ad abortire un feto affetto da quella stessa patologia» (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sent. 28/8/2012 (Ricorso n. 54270/10), n. 64 delle Considerazioni in diritto).

La censura è inappuntabile: se è consentito interrompere la vita prenatale malata, non ha senso vietare lo scarto ab origine di quella stessa vita per evitare di doverla abortire in seguito. Si tratta di un percorso logico che non può essere ostacolato se non facendo cadere le premesse da cui è partito, per ristabilire il principio di civiltà giuridica secondo cui la vita umana va rispettata integralmente sin dal concepimento. Al contrario, se l’inclinazione del piano non viene corretta, è solo questione di tempo prima che si giunga alle nuove frontiere della bioetica libertaria quali la produzione di embrioni a fini di sperimentazione, la creazione di ibridi e altre pratiche che oggi appaiono improponibili.

Lo scenario delineato è solo apparentemente lontano e irrealistico perché l’anima dell’ordinamento giuridico è il diritto vivente, quello che si va costruendo nei tribunali e che è in grado, se supportato da orientamenti costanti e diffusi, di produrre svolte radicali sul piano statico del diritto positivo. Le premesse logiche e giuridiche ci sono tutte e, sempre che non intervenga un’inversione di tendenza, dobbiamo aspettarci di tutto.

Vincenzo Gubitosi

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