19/04/2018

Lgbt – “Nuove famiglie”: dietro l’arcobaleno, il buio

Le coppie omosessuali sono molto più instabili e violente delle coppie etero.

Lo dicono gli omofobi? No, la denuncia viene dal mondo LGBT

È indubbio come sia in corso, ormai da anni, un tentativo su più versanti – accademico, mediatico e politico – di presentare le coppie composte da persone dello stesso sesso come modello di ‘nuova famiglia’ del tutto equivalente a quella naturale, ribattezzata non a caso come ‘tradizionale’ e posta a sua volta sullo stesso piano di altre unioni alle quali, pur non essendo ‘tradizionali’, sarebbero riservate le medesime attenzioni. Se si guarda in particolare alle serie televisive o a come vengono confezionate molte trasmissioni non c’è dubbio come detto tentativo non solo sia in atto, ma sia sempre più insistito e non di rado giunga ad esaltare ‘nuove famiglie’ presentandole ai telespettatori come più equilibrate, più sensibili, più aperte mentalmente; quasi che le unioni gay fossero interpreti di una sensibilità nuova, rispetto alla quale la famiglia ‘tradizionale’ avrebbe solo da imparare.

È proprio così? No. Lo dice il mondo Lgbt

Ma davvero le coppie composte da persone dello stesso sesso sono un modello positivo e, comunque sia, tranquillamente paragonabile alla famiglia ‘tradizionale’? Il solo modo per farsi un’idea al di là delle diverse sensibilità e convinzioni morali di ciascuno è quello di volgere lo sguardo alla ricerca e alle statistiche. Statistiche le quali – strano ma vero . raccontano sulle unioni omosessuali una realtà molto diversa da quella catodica tutta ‘baci e abbracci’. Infatti le relazioni fisse omosessuali non sembrano paragonabili a quelle eterosessuali da nessun punto di vista: né per durata, né per esclusività e neppure, anche se è politicamente scorretto dirlo, per i tassi di violenza interpersonale che le caratterizzano.

Vediamo perché. Si può iniziare considerando la stabilità di coppia, condizione che se da un lato non è automaticamente indice di armonia relazionale dall’altro viene considerata ‘duratura’ se raggiunge almeno venticinque anni di convivenza; una coppia omosessuale, invece, può essere considerata ‘duratura’ se si protrae almeno per cinque anni [cfr. Pediatria Preventiva & Sociale, 2014;37-39]. Un terzo delle coppie omosessuali conviventi, infatti, sta insieme meno di due anni, un terzo tra i due e i cinque anni e l’ultimo terzo più di cinque anni [cfr. Barbagli M. – Colombo A. (2007) Omosessuali moderni. Gay e lesbiche in Italia, Il Mulino].

Secondo uno studio olandese, la relazione ‘ ssa’ media di coppie maschili dura 1,5 anni [cfr. AIDS, 2003; Vol.17(7):1029-1038]. La situazione non è diversissima in Inghilterra dove, secondo una ricerca, rispetto alle coppie eterosessuali sposate, quelle eterosessuali solo conviventi hanno entro cinque anni un rischio di rottura 2,75 volte superiore, rischio che sale addirittura a 5,25 se il termine di paragone sono le coppie conviventi omosessuali [cfr. Journal of Marriage and Family, 2012; Vol.74(5):973–988].

È interessante osservare come neppure il riconoscimento giuridico riesca a rendere più solide le coppie composte da persone dello stesso sesso: uno studio condotto sulle unioni dello stesso sesso registrate in Norvegia e Svezia ha riscontrato per queste un rischio di divorzio superiore dal 50 no al 167% rispetto a quello proprio dei matrimoni tra uomini e donne [cfr. Demography, 2006; Vol.43 (1):79–98].

Oltre a non essere duratura, la relazione omosessuale non risulta neppure caratterizzata da esclusività: Mcwhirter e Mattison – due studiosi omosessuali, dunque non sospettabili di parzialità – hanno esaminato 156 coppie formate da omosessuali maschi scoprendo come, di queste, solo sette avevano avuto una relazione sessualmente esclusiva, e nessuna di esse aveva avuto una durata maggiore di cinque anni [cfr. (1984) The male couple. Reward Books, Englewood Cliffs].

Con ogni probabilità ciò è il riflesso anche del fatto che molte persone omosessuali, nel corso della loro vita, tendono ad avere un numero altissimo di partner: un’ampia ricerca di alcuni anni fa svolta su un campione americano, mostrava che su 574 uomini omosessuali soltanto tre avevano avuto un unico partner, l’1 % ne aveva avuti 3-4,il2% 5-9, il3% 10-14, l’8% 25-49, il 9% 50-99, il 15% 100-249, il 28% 1000 (mille) e più [cfr. A.P. Bell – Weinberg M.S. (1978) Homosexualities: A study of diversity among men and women, Simon & Schuster, New York].

Si potrebbe a questo punto obiettare che tutto questo, però, sia dovuto al mancato riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali che, una volta socialmente accettate, renderebbero i soggetti che le compongono molto più sereni, appagati e con condizioni di salute migliori. Tuttavia questa osservazione, a prima vista plausibile, non solo non ha dati che la suffragano, ma ne ha che la smentiscono.

In particolare, il fatto che il riconoscimento della unione omosessuale sia associato a migliori condizioni di vita e felicità è smentito da uno studio condotto sulla popolazione della Danimarca fra il 1981 e il 2010 i cui esiti sono così sintetizzati da padre Giorgio Carbone: “Tra i maschi sposati con altri maschi la frequenza del suicidio aumenta di 4,09 volte rispetto ai maschi sposati con donne e tra i maschi conviventi con altri maschi aumenta di 3,46 volte. Tra le femmine sposate con altre femmine la frequenza aumenta di 6,40; e nel caso delle conviventi aumenta di 1,79” [(2015) Gender, Edizioni Studio Domenicano]. Siamo insomma lontanissimi dalla felice cartolina arcobaleno che viene così frequentemente mostrata sui media.

Lo dimostrano anche i dati sulla violenza: le relazioni omosessuali, infatti, risultano segnate in misura superiore da violenza – spesso suscitata da gelosia e desiderio di vendetta – di quelle eterosessuali [cfr. American Journal of Public Health, 2002; Vol.92(12):1964-1969]. Questo aspetto è ben noto agli studiosi, che ritengono molto frequente la violenza domestica all’interno delle coppie omosessuali al punto da considerarla respon- sabile di un numero di vittime superiore di quelle di cui sarebbe responsabile l’omofobia [cfr. Temple Political & Civil Rights Law Review, 1999; Vol.8].

Perché allora non se ne parla? Anzitutto le persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender e queer stentano a denunciare gli abusi subiti perché non vogliono essere visti come ‘traditori’ della comunità LGBTQ [cfr. Journal of Interpersonal Violence, 1994; Vol.9(4):469-492].

Inoltre, una seconda ragione per cui la violenza all’interno delle coppie omosessuali è un tema poco considerato è ‘esterna’ e riguarda la difficoltà, da parte di molti, a ritenerla possibile e diffusa. Fa molto ri ettere, in proposito, il caso di un ragazzo di 35 anni della provincia di Bologna, il quale, dopo aver subito per quattro anni percosse ed abusi da parte del compagno, ha deciso di non tacere più, ma purtroppo non è stato preso sul serio dalle forze dell’ordine e neppure dal centro antiviolenza: «Il centro antiviolenza a cui mi sono rivolto ha deciso solo dopo una riunione straordinaria di accettare il mio caso: ho dovuto chiamare decine di volte. Poi abbiamo iniziato il percorso, ma con un grande imbarazzo. Ero il primo uomo che vedevano» [27esimaora.corriere.it, 22.3.2015].

Forse sarebbe il caso di smettere d’immaginare le ‘nuove famiglie’ stile Mulino Bianco 2.0 e d’iniziare a fare i conti con il buio nora tenuto ben nascosto sotto le bandiere arcobaleno.

Giuliano Guzzo

Fonte: articolo pubblicato sulla rivista Notizie ProVita di aprile 2016, pp. 10-12

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