31/05/2018

Logica applicata al concetto di “accanimento terapeutico”

Pubblichiamo ampi stralci dell’approfondito articolo di Alessandro Benigni, che ci guida in un esercizio di logica per comprende appieno il significato del termine “accanimento terapeutico”.

Logica applicata al concetto di “accanimento terapeutico”

La domanda è quindi: che cosa succede quando dimentichiamo il significato dei termini?

Non mi sembra una domanda ninnolona: siamo davvero sicuri che le cose funzionino anche se le chiamiamo con nomi diversi?

Porterò solo un breve esempio indicativo, proprio in riferimento al caso Alfie Evans, mostrando come il piano inclinato (che in logica è sì una pessima fallacia, ma nel mondo sociale va alla grande) ci abbia portati fino al punto di non riconoscere più la differenza tra accanimento terapeutico e cura.

Diamo per scontato che anche il lettore più radical accetti l’idea che chiunque ha diritto alla cura e che esiste una differenza sostanziale tra cura e guarigione e prendiamo le parole da una riflessione di Elio Sgreccia (che sia anche Cardinale è qui dettaglio trascurabile: si tratta pur sempre di un bioeticista di fama internazionale ed autore, tra i tanti volumi, del conosciuto Manuale di bioetica. Fondamenti ed etica biomedica, Editrice Vita e Pensiero, Milano 2007): «L’inguaribilità non può mai essere confusa con l’incurabilità: una persona affetta da una male ritenuto, allo stato attuale della medicina, inguaribile, è paradossalmente il soggetto che più di ogni altro ha diritto di chiedere ed ottenere assistenza e cura, attenzione e dedizione continue: si tratta di un fondamento cardine dell’etica della cura, che ha come principali destinatari proprio coloro che versano in uno stato di vulnerabilità, di minorità, di debolezza maggiore» (Card. Elio Sgreccia, Il diritto di accompagnare fino alla fine, in Contro Corrente, vol. 4 CroceVia Edizioni).

Insomma: ad ognuno va riconosciuto il diritto di essere assistito in ogni fase della sua malattia, in ragione dello stato di necessità, legato all’età e alla malattia stessa che vive. Il volto umano della medicina si manifesta proprio nella pratica clinica del “prendersi cura” della vita del sofferente e del malato, a prescindere dal fatto che possa essere guarito.

E proprio da questo si comprende che cos’è – o cosa dovrebbe essere – ciò che noi chiamiamo “accanimento terapeutico”: in generale, una pervicace pratica di trattamenti medici di comprovata inefficacia in relazione all’obiettivo, a cui si aggiunge la presenza di un rischio elevato e/o una particolare gravosità per il paziente con un’ulteriore sofferenza, in cui l’eccezionalità dei mezzi adoperati risulti chiaramente sproporzionata agli obiettivi della condizione specifica (Cfr. Questioni bioetiche relative alla fine della vita umana, Comitato Nazionale per la Bioetica, 1996. – P. Cattorini, Bioetica: metodo ed elementi di base per affrontare problemi clinici, Milano, Masson Ed., 1996, p. 53: «[L’accanimento terapeutico è una] ostinata rincorsa verso risultati parziali a scapito del bene complessivo del malato».

Anche per la Chiesa Cattolica le cose stanno sostanzialmente allo stesso modo: «L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’«accanimento terapeutico». Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2278, vedi anche qui).

Ora, proprio in riferimento alla vicenda Alfie Evans (ma anche Charlie Gard o Isaiah Haastrup e chissà quanti altri di cui non si ha notizia), il punto è che per “accanimento terapeutico” s’è voluto intendere anche idratazione, nutrizione e respirazione assistita.

In altre parole: date le condizioni dei piccoli pazienti, i medici hanno ritenuto che il dare loro acqua, nutrimento ed aria da respirare sia una forma di terapia ovvero, per riportare quanto sopra evidenziato, una «pervicace pratica di trattamenti medici di comprovata inefficacia in relazione all’obiettivo, a cui si aggiunge la presenza di un rischio elevato e/o una particolare gravosità per il paziente con un’ulteriore sofferenza, in cui l’eccezionalità dei mezzi adoperati risulti chiaramente sproporzionata agli obiettivi della condizione specifica».

Metto tra parentesi per un attimo il fiume di considerazioni filosofiche, banali e meno banali, che sulla questione potremmo subito innescare. Ricordo invece che anche alcuni cattolici (!) concordano sostanzialmente con questa posizione (sia pure con sfumature: spiegherò poi perché irrilevanti se non contraddittorie): acqua, nutrimento e ossigeno sono (sarebbero) “terapie”. Ricordo anche che per terapia (dal gr. ϑεραπεία) s’intende ciò che viene messo in atto per curare una malattia: «attuazione concreta dei mezzi e dei metodi per combattere le malattie», recita l’Enciclopedia medica Treccani.

Mentre il lettore si chiede quali malattie vengano mai curate con nutrizione, idratazione e ventilazione assistita (ma non è una novità, perché se ci si pensa bene anche gli aborti – che pure vengono praticati negli ospedali – non curano nessuna malattia, a meno di non voler considerare una malattia la gravidanza), andiamo a controllare un caso paradigmatico.

È questo il punto – credo – in cui dobbiamo chiederci che cosa s’intende per “forzatura inutile” o meglio per “accanimento terapeutico”. Questa prima domanda ci pone di fronte ad un’operazione preliminare che riprende l’interrogativo iniziale ed in generale riguarda sempre argomenti ed argomentazioni: che cosa intendiamo indicare con i termini o con le espressioni linguistiche che utilizziamo?

Si tratta di un passaggio fondamentale, pena l’inutilità o addirittura la pericolosità di ogni discorso, dal più banale al più complesso.

Abbiamo già riferito qui sopra che cosa s’intende (oggi) per “accanimento terapeutico”, e nell’addentrarci un po’ più a fondo nella questione, qualcuno potrebbe obiettare che si tratta di un argomento terribilmente tecnico, riservato ai soli medici o ai bioeticisti di professione. Ma le cose non stanno così. Perché i medici non possono imporci un’etica, quale che essa sia, né possono farlo i bioeticisti (le cui opinioni peraltro sono spesso contrapposte se non contraddittorie, controverse e controvertibili) né d’altra parte possono farlo i giudici (come sempre più spesso invece sta accadendo e a cui viene oggi lasciato uno spazio di manovra tale da interpretare le leggi come meglio credono, dando luogo a precedenti che de facto vanno a costruire l’etica socialmente condivisa più di mille trattati).

Ma il punto è che se non abbiamo idee chiare su questo argomento ne deriva che le proposte di legge relative non verranno comprese (né da noi né dai nostri rappresentanti in Parlamento) sia nel loro significato evidente che in quello più nascosto, quindi nelle loro conseguenze: anche le più drammatiche.

Lo svolgimento dell’argomentino è tutto fondato sulla sequenza diretta del modus ponendo ponens: [(P→Q)∧P→Q ovvero: “se A, allora B; ma A; quindi B”. Per esempio “se è giorno, allora c’è luce; ma è giorno; quindi c’è luce”).

È una sequenza logica corretta, che però scivola via come una ghigliottina. Una volta accettate le premesse (in questo caso termini che non rispondono alla realtà), le conseguenze saranno inevitabili.

Quello di cui molti, oggi, si dimenticano (compresi professori e studiosi affermati) è che si può avere un ragionamento logicamente corretto e rigoroso, i cui contenuti siano falsi. Lo si vede chiarissimamente nel sillogismo aristotelico (detto “di prima figura”):

  1. a) Tutti gli esseri umani sono pazzi
  1. b) Il professore di filosofia è un essere umano

______________________________

  1. c) Il professore di filosofia è pazzo

Il ragionamento è formalmente corretto, ma solo se le premesse a) e b) sono vere, la conclusione c) è senz’altro vera.

Dal che si potrebbe parafrasare:

  1. a) Tutte le terapie mediche possono essere accanimento terapeutico
  1. b) La ventilazione assistita è una terapia medica

______________________________

  1. c) La ventilazione assistita può essere accanimento terapeutico

Oppure, per il modus ponens:

Se la ventilazione assistita è terapia medica, allora può essere accanimento terapeutico.

Ma la ventilazione assistita è terapia medica, dunque può essere accanimento terapeutico.

E certamente, se le cose stanno in questo modo, allora hanno ragione gli inglesi che, come ci ricorda Benedetta Frigerio, con il loro LCP hanno costretto a morire per fame e per sete di 200 mila persone l’anno, di cui 40 mila private di cibo e acqua ad insaputa dei loro parenti (“LCP” è un acronimo di “Liverpool Care Pathway”, il protocollo di accompagnamento alla morte sviluppato a fine anni ’90 nel Regno Unito per il presunto “miglior interesse” del paziente in cui chi poteva presumibilmente morire entro un anno veniva inserito in un elenco chiamato “death list“: gli ospedali ricevevano denaro in base al numero di pazienti in lista).

Peccato che le cose, a ben vedere, non stiano affatto così.

Per il Modus Tollens («se P allora Q; non Q, allora non P»), abbiamo infatti che:

Se idratazione nutrizione e ventilazione sono terapie allora hanno come fine la guarigione (Se P allora Q)

Idratazione nutrizione e ventilazione non hanno come fine la guarigione (¬ Q)

Allora non sono terapie (¬ P)

Ma se non sono terapie, come si può parlare di “accanimento terapeutico”?

Fermiamoci un attimo. La ventilazione ha come scopo far respirare il paziente, mantenerlo in vita: non guarirlo da una malattia. La ventilazione, l’idratazione e la nutrizione assistite non combattono alcuna patologia: negare aria, idratazione e nutrimento non significa negare terapie, ma ciò che serve a chiunque per vivere, non necessariamente malati. Anche gli esseri umani perfettamente sani devono infatti nutrirsi, bere, respirare, e non importa se in modo autonomo o meno: per esempio un bambino nel ventre della madre, perfettamente sano, beve, si nutre e respira solo grazie alla madre. Altrimenti morirebbe. Lo stesso un anziano, perfettamente sano, potrebbe non essere in grado di nutrirsi da solo o di respirare agevolmente: e quindi? Che si fa?

Il punto nodale, che deve emergere in tutta la sua follia, è la confusione tra atto di pietà e omicidio, che è il suo esatto opposto.

Negare i supporti vitali (acqua, aria, nutrimento) non è l’equivalente logico di evitare cure pesantissime dagli effetti improbabili. Togliendo i supporti vitali, non facciamo un atto di pietà: uccidiamo un essere umano.

Il fatto è che le definizioni di “accanimento terapeutico”, di “best interest” ed “eutanasia” hanno mostrato degli slittamenti semantici impressionanti, tali da rendere socialmente accettabile un significato che per questi termini è per lo meno contraddittorio. Per cui oggi in troppi sono predisposti a confondere il doveroso atto di pietà (evitare cure strazianti dagli esiti incerti, mantenendo solo le cure palliative per eliminare il dolore, fino al compimento naturale della vita), con la violenza brutale dell’omicidio, tecnicamente premeditato.

Nè sembra molto diffusa la consapevolezza dei paradossi e dei corto-circuiti logici che simili posizioni comportano.

Per esempio: se le cose stanno così perché mai sottoporre il paziente ad una lunga agonia? Senza ossigeno (ma anche senza nutrimento e senza idratazione) la morte non è immediata. A questo punto non sarebbe meglio, a rigor di logica, un’iniezione letale? E’ infatti proprio questo – a quanto sembra – ciò che hanno fatto al piccolo Alfie: tolta la respirazione assistita il bambino ha respirato comunque per oltre una sessantina di ore. Quindi, stando alle testimonianze che abbiamo letto, al bambino è stata praticata un’iniezione e poco dopo è morto.

Seguendo solo la logica formale ma dimenticandosi della realtà delle cose, è questo quello che succede.

Sarebbe poi interessante – se il discorso non ci portasse troppo lontano – aprire qui una parentesi sui motivi di quell’ignoranza logica ed ontologica che sta di fatto allargando sempre più è sempre più velocemente le tipologie di condizioni definite “senza speranza”: condizione essenziale per poter stra-parlare “a-priori” di “best interest”, di “accanimento terapeutico” e di “eutanasia” (ne avevo già discusso qui).

Posto che la storia della medicina abbia contato diverse guarigioni tanto inaspettate quanto inspiegabili, quando, esattamente, siamo autorizzati a definire determinate condizioni “senza speranze”?

Sono dunque questi continui e martellanti slittamenti semantici misti a confusioni concettuali a rendere possibile la promozione dell’eutanasia come supremo atto di libertà, quando questo è logicamente impossibile: non solo con l’eutanasia la coscienza del medico viene infatti obbligata da quella del paziente (e viceversa: non è già questo un paradosso?) ma poi come conoscere quali sono le “ultime” volontà di ciascuno? Si può sempre cambiare idea, no? Anche un istante prima dell’esecuzione è possibile voler vivere, anziché morire. Come distinguere in questo caso il suicidio dall’omicidio? E la criticità logica mina l’espressione “best interest”, surrettiziamente legata allo pseudo concetto di “qualità della vita”: quell’arrogante forma di violenza di chi pensa di poter decidere – per la vita degli altri – quali siano i limiti entro i quali un’esistenza valga la pena di essere vissuta. Anche questa concezione dà luogo ad un doppio paradosso logico: le condizioni del paziente sono per definizione sempre mutevoli – il paziente può peggiorare fino alla morte, certo, ma anche restare stazionario o addirittura migliorare e perfino guarire – ed è impossibile stabilire “a priori” in modo certo l’esito di una malattia, come la storia della scienza medica, tappezzata di guarigioni inspiegabili, ci ricorda puntualmente. Ma lo slogan del “best interest” si presta anche all’applicazione della legge della dicotomia: i limiti che dovrebbero definire con precisione quelle condizioni tali per cui la vita (di qualcun altro) “non è degna di essere vissuta” sono per loro natura labili, fumosi ed imprecisi e si prestano a una discrezionalità inaccettabile – soprattutto tenendo conto che si parla della vita umana altrui.

[...]

Dato invece lo spazio a disposizione, ora proveremo solo a controllare la tenuta minima, dal punto di vista logico e ontologico, del concetto di “accanimento terapeutico”. A questo proposito il problema è capire se idratazione nutrimento e respirazione forzati siano meno forma di “trattamento terapeutico”.

Non si tratta di una questione circoscritta all’incredibile fine dei bambini inglesi. La cosa ci riguarda tutti da vicino, in quanto l’italianissima legge sulle DAT (“Disposizioni anticipate di trattamento”, comunemente definite “testamento biologico” o “biotestamento”, regolamentate dall’art. 4 della Legge 219 del 22 dicembre 2017, entrata in vigore il 31 gennaio 2018) basandosi proprio sullo slittamento semantico di “accanimento terapeutico” ha introdotto di fatto anche da noi l’eutanasia passiva (sulla differenza tra eutanasia attiva e passiva e sul paradosso della “libera scelta” ho già scritto qui).

Dovrebbe quindi riflettere attentamente chi crede che la legislazione inglese abbia consentito “un omicidio” che da noi sarebbe impossibile compiere, restando perfettamente nei limiti della legge. Le DAT di fatto consentono di interrompere idratazione, nutrizione e ventilazione assistita (definite maliziosamente “trattamenti sanitari”), equiparandole a “terapie mediche”, anche contro la volontà del paziente (o di chi ne fa le veci).

[...]

La domanda è: i “trattamenti sanitari” sono l’equivalente logico ed ontologico delle “terapie”? A parte l’evidenza della “Finestra di Overton” in azione anche qui, come altrove ho segnalato, se così stanno le cose dovremmo essere in grado di indicare con esattezza (per la definizione di “terapia” ricordata più sopra) che cosa si guarisce, quale malattia viene curata con idratazione, alimentazione e ventilazione assistita.

Ovvero: da cosa ci guariscono aria, acqua e cibo?

Da questa domanda risulta chiaro che lo scopo di considerare “trattamenti sanitari” la respirazione, la nutrizione e l’idratazione artificiale, è quello di equipararli sostanzialmente alle “terapie”, cioè  quelle pratiche terapeutiche che hanno il compito di guarire un malato, e tutto questo con chiaro intento tanatologico, non terapeutico e men che meno curativo.

Nel caso della sospensione della ventilazione assistita, per esempio, si provoca la morte per asfissia: non è la malattia ad uccidere, ma siamo noi a farlo, soffocando il malato. Lo stesso dicasi per idratazione e nutrizione: non è la malattia ad uccidere, ma siamo noi a far morire un essere umano (che non è in grado di provvedere da solo al suo nutrimento) per fame e per sete, negandogli ciò che serve a tutti (malati o meno che siano), esattamente come potremmo fare con un bambino appena nato o con un anziano non autosufficiente, malato o meno che sia: se non gli diamo da bere, da mangiare, muore. E il decesso non avviene “per morte naturale”: è stato provocato. In altre parole: il paziente è stato semplicemente ucciso.

L’idea, qui nemmeno tanto velata, è che non sarebbero tanto gli eventuali “trattamenti sanitari” ad essere considerati gravosi o inutili, ma è invece il fatto stesso di voler mantenere in vita un morente o un malato grave ad essere considerato un “accanimento terapeutico”.

In altre parole: chi non può guarire, deve morire. E alla svelta.

Ed è chiaro che per questo principio (sempre per il metodo di controllo sociale definito “Finestra di Overton”) dovrà poi gradualmente essere esteso a tutti, per cui “la gran parte dei mezzi di sostegno vitale andrebbero evitati in fase terminale o nelle malattie croniche e invalidanti” (C. Navarini, Eutanasia, in T. Scandroglio [a cura di], Questioni di vita & di morte, Ares, Milano, 2009, p. 197).

Ma, scavando ancora più a fondo, dobbiamo ricordare che perché si possa a pieno titolo parlare di “accanimento terapeutico” occorre che si sia definita la malattia con precisione millimetrica e che lo stadio della malattia venisse dimostrato come inguaribile: solo in base a questa possibilità di definizione sarebbe possibile azzardare una valutazione del rapporto invasività delle cure mediche / possibilità di guarigione, ovvero costi / benefici.

Peccato che quest’operazione sia – in linea teorica – semplicemente impossibile. Ho scritto “azzardare” perché nessuno è in grado di garantire “a priori” la materializzazione del Modus pones:

“Se il paziente ha la mattia x, allora morirà in un tempo y”.

“Ma il paziente ha la malattia x, dunque….”.

Prima di tutto le diagnosi possono sempre essere sbagliate. Di conseguenza, possono esserlo le prognosi.  La storia della medicina è costellata non solo di diagnosi erronee, ma perfino di guarigioni “inspiegabili” e che gli stessi specialisti, alla luce delle conoscenze mediche più recenti, non sanno spiegarsi.

[...]

Questo non significa ovviamente che non ci si debba fidare dei medici, ma semmai che la Scienza medica vada presa per quello che è: un imperfetto work in progress, non un cumulo di verità dimostrate una volta per tutte, per cui date certe premesse si hanno necessariamente, sempre e comunque, precise e prevedibili conseguenze.

Ora: sarà mai logicamente sensato decidere della morte di un paziente in base a diagnosi probabili, prognosi incerte, confondendo sostegno vitale con terapie e per di più il tutto contro la volontà del paziente stesso?

Su se stesso, sulla sua mente e sul suo corpo, l’individuo è sovrano» (John Stuart Mill, On Liberty).

Alessandro Benigni

Fonte articolo, in versione integrale: Critica Scientifica

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