09/07/2019

L’orrore dei prelievi forzati degli organi in Cina

C’è un orrore che, nell’indifferenza dei più, continua a perpetuarsi in Cina: quello del prelievo forzato di organi sui prigionieri di coscienza. Si tratta di una pratica orrenda che nella Repubblica Popolare Cinese – nonostante Pechino l’abbia messa ufficialmente fuori legge nel 2015 – continuerebbe tutt’ora. Tutto nacque quando, anni fa, il regime cinese iniziò a perseguitare i praticanti del Falun Gong, una combinazione di derivazione buddista di meditazioni, esercizi fisici e morali.

Un fenomeno religioso dalla parvenza innocua, ma non per il Partito Comunista che, forse spaventato per la crescita di questo movimento – che dopo appena 7 anni dalla sua fondazione, nel 1990, contava circa 100 milioni di fedeli, l’ha ritenuto una minaccia da estirpare. Di qui l’inizio di ondate di violenza giunte, come si diceva, fino al prelievo forzato di organi ai danni dei praticanti il Falun Gong. Nel complesso, diverse centinaia di migliaia di praticanti sono stati imprigionati senza processo, e nel giro di dieci anni, secondo le stime, almeno 2.000 erano i morti in carcere.

Il mondo occidentale ha iniziato ad accorgersi di tutto ciò poco più di una dozzina di anni fa, nel 2006, quando emersero le prime voci – poi rivelatesi drammaticamente fondate – del terribile commercio d’organi in atto da anni nel Paese. Per far conoscere simili orrori fu anche girato un documentario dal titolo evocativo: Hard to Believe, «difficile da credere», un gioco di parole dal duplice significato, riferito quindi sia alla difficoltà di professare la propria fede in Cina sia alla difficoltà di credere alle violenze che in quel Paese toccano ai praticanti del Falun Gong.

In quel documentario si potevano ascoltare testimonianze di ex prigionieri e anche quella – particolarmente scioccante – di un chirurgo che racconta di aver estratto organi ad alcuni prigionieri mentre questi ultimi erano svegli. Orrori che in Cina fanno un’impressione relativa, se si pensa che solo tra il 1958 e il 1962 la spietatezza di Mao portò alla soppressione fisica di 45 milioni di persone, per non parlare delle altre decine di milioni di morti dovute a carestia e malattie.

L’incubo del regime cinese, insomma, non è una novità. Tuttavia, come si diceva, nel 2015 si credeva che il prelievo forzato di organi sui prigionieri di coscienza fosse ufficialmente stato messo fuori legge. Invece vi sono numerosi elementi che fanno a buon diritto ritenere l’orrenda pratica tutt’ora posta in essere.

Si spiegano anche così le proteste di questi giorni a Hong Kong, proteste nell’anniversario del ritorno alla Cina. C’è infatti chi ha fatto presente come gli abitanti della metropoli ben conoscano la storia del dominio del Partito Comunista. Essi quindi sanno bene cosa sta succedendo nel resto della Cina. In particolare, al di là di apparenze, sanno di cosa è capace la leadership cinese. E, rispetto alle vittime di certi orrori davvero spaventosi, sanno che essi potrebbero essere le prossime.

L’auspicio è quindi che le proteste di questi giorni possano servire per ricordare inenarrabili violenze toccate a quanti si riconoscono nel Falun Gong; violenze troppo a lungo dimenticate, in teoria superate ma in pratica, come si diceva poc’anzi, ancora reali e inflitte ai danni di chissà quanti innocenti rei soltanto di avere un certo credo religioso. Lo provano le conclusioni cui è giunto sir Geoffrey Nice QC, presidente del China Tribunal – un tribunale popolare indipendente -, che il 17 giugno scorso ha stabilito all’unanimità che i prigionieri di coscienza in Cina sono stati e continuano a essere uccisi per i loro organi «su scala significativa». L’orrore quindi continua. Sta a noi tenerlo a mente e denunciarlo.

Giuliano Guzzo

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