18/02/2014

Nell’aborto, “diritto” fa rima con “profitto”

Il sito internet www.uccronline.it ha dedicato all’industria dell’aborto un ampio articolo[1]. La vera base d’appoggio dell’aborto – si legge nell’introduzione – non è il “diritto di scelta” e nemmeno la “salute della donna”. Queste due false motivazioni sono usate per nascondere la vera questione, e cioè che dietro all’aborto si cela un’enorme industria miliardaria, a cui attingono politici e le maggiori istituzioni scientifiche.

Detto in altre parole, ciò che realmente interessa è l’aspetto economico, adeguatamente mascherato da promozione dei diritti della donna; infatti, coloro che difendono e promuovono l’aborto (in particolare vari enti di ricerca scientifica), sono generalmente gli stessi che ne traggono immensi profitti economici. Si vede, in sostanza, come ci sia una stretta sinergia tra lobby ideologiche e lobby economiche, così stretta che le due arrivino spesso a fondersi (e non solo nel campo dell’aborto) in un’unica entità.

Per capire quale sia il giro d’affari generato dall’industria dell’aborto negli USA, si possono considerare i dati riportati dall’Alan Guttmacher Institute (AGI), il ramo di ricerca della Planned Parenthood (PP), l’ente abortista più grande del mondo. Nel 2005, negli Stati Uniti, sono stati praticati 1.210.000 aborti, l’88% dei quali (1.064.800) è stato eseguito nel primo trimestre di gravidanza. Moltiplicando questi aborti per 413 dollari (il costo medio per l’Ivg nel primo trimestre), si ottiene un’entrata di circa 440 milioni di dollari. A questa cifra si deve aggiungere l’incasso degli aborti al secondo e terzo trimestre di gravidanza (circa 145mila) che, secondo le stime del Women’s Medical Center, hanno un costo che si aggira sui 3mila dollari, poiché più la gravidanza è avanzata più è elevato il costo dell’aborto. Gli aborti tardivi hanno fatto incassare alle 1.787 cliniche abortive americane, circa 435 milioni di dollari, che sommati all’incasso per gli aborti del primo trimestre portano l’introito del 2005 a 890 milioni di dollari. Ma non è ancora tutto, a questa cifra si devono aggiungere anche i contributi pubblici ricevuti dalla PP (soldi presi dalle tasse pagate dai contribuenti) che, nell’esercizio considerato, sono ammontati a 337 milioni di dollari, portando così le entrate complessive per gli aborti legali eseguiti nel 2005, ben oltre il miliardo di dollari!

Nel report annuale 2006-2007 pubblicato sul proprio sito[2], la Planned Parenthood ha indicato un patrimonio netto di 951,8 milioni di dollari, mentre nell’anno fiscale 2008-2009, l’attivo è salito a 994,7 milioni di dollari ed il finanziamento ricevuto dal governo degli Stati Uniti è lievitato a 363,2 milioni di dollari[3]. Secondo quanto stabilito dal Titolo 10, emanato nel 1970 come parte della legge federale “Public Health Service Act”, il finanziamento ricevuto dalla PP deve essere impiegato per “servizi sanitari di salute riproduttiva”, inclusa la pianificazione familiare, e non può essere speso per l’esecuzione diretta degli aborti, fatta eccezione per le Ivg in caso di stupro, incesto o per preservare la vita della madre. Ma la realtà è assai diversa, come ha denunciato[4] Abby Johnson, ex direttrice di uno dei più importanti centri della Planned Parenthood, quello di Bryan (Texas). Nell’ottobre 2009, la Johnson lascia il lavoro di direttrice del centro di Bryan, dopo aver visto l’aspirazione di un feto dal monitor dell’ecografo, durante l’esecuzione di un aborto. “Posso dire di aver avuto una netta conversione del cuore… una conversione spirituale”, ha dichiarato la Johnson a Fox News; tuttavia, prima di quel momento decisivo, era già successo qualcos’altro che le aveva fatto sorgere dubbi e amarezza per il suo lavoro. L’ex direttrice ha dichiarato di aver iniziato a disilludersi del lavoro dopo aver ricevuto per mesi pressioni dai suoi superiori per aumentare i profitti mediante l’aumento del numero degli aborti: “Ogni riunione che avevamo era: ‘Non abbiamo abbastanza soldi, non abbiamo abbastanza soldi, dobbiamo fare in modo di aumentare questi aborti’”. “È un business molto redditizio, perciò vogliono incrementarne il numero”, ha precisato la Johnson, tuttavia “il mio obiettivo ideale, come direttore della struttura, è che il numero degli aborti non aumenti” perché “si sta provvedendo così bene a pianificazione familiare e formazione, per cui non vi è più alcuna domanda di servizi di aborto. Ma questo non era il loro obiettivo. Secondo loro non si fanno molti soldi con la formazione. La pianificazione familiare non permette di fare così tanti soldi come consente di fare invece l’aborto”. La Johnson ha quindi rivelato a Fox News che, non avendo un medico residente, il centro abortivo che dirigeva eseguiva gli aborti solo due giorni al mese ma, nei due giorni in cui il medico era presente, poteva praticare dalle 30 alle 40 procedure, che moltiplicate per un guadagno di circa 350 dollari l’una, permettevano al centro di realizzare oltre 10mila dollari al mese. In sostanza, “la maggior parte del denaro andava alla struttura” per l’esecuzione diretta degli aborti, e non per la loro prevenzione. Le dichiarazioni che Abby Johnson ha rilasciato le hanno procurato problemi e attacchi personali, ma lei non si è abbattuta né fatta intimorire: nel 2011 ha pubblicato il libro “Unplanned”, dove racconta la storia della sua conversione e le politiche illecite della PP.

Nell’ambito del business abortivo, operano anche potenti organizzazioni molto attive sul fronte politico, che si occupano di promuovere e diffondere l’aborto nel mondo. Negli USA c’è, per esempio, la Emily’s List la quale – come reclamizza nel suo sito web -, si occupa di “selezionare le migliori candidate donna. La nostra squadra politica identifica, recluta e forma le leader Democratiche pro-choice più capaci e promettenti, e le aiuta a organizzare una campagna elettorale vincente”. Per questo l’associazione si adopera a “costruire la base finanziaria per la vittoria” mediante la creazione di “una vigorosa raccolta fondi che immetta milioni di dollari nelle campagne delle donne Democratiche pro-choice”. Si legge[5] nel sito che dal 1985, anno della sua fondazione, la Emily’s List è riuscita a “raccogliere oltre 240 milioni di dollari”, grazie ai quali ha potuto far “eleggere 67 donne Democratiche pro-choice alla Camera e 13 al Senato degli Stati Uniti, più 8 governatori”; ed “in sole undici tornate elettorali, ha agevolato l’elezione di centinaia di donne Democratiche pro-choice in uffici federali, assemblee legislative, uffici costituzionali ed altri uffici locali chiave”.

Nel Vecchio Continente spicca l’organizzazione inglese Marie Stopes International (MSI), uno dei più grandi enti abortisti europei, foraggiata dal governo britannico con milioni di sterline. Nel 2010 ha realizzato uno spot pubblicitario a favore dell’aborto con fondi dell’erario britannico, che è andato in onda sulla rete televisiva Channel 4, anch’essa sovvenzionata dallo Stato. Ma l’MSI non opera solo in Europa, visto che l’ente abortista inglese – come fa notare[6] l’avvocato Gianfranco Amato -, collabora anche con la Cina nel programma di “pianificazione delle nascite”. L’MSI ha una prestigiosa sede anche a Pechino, e almeno cinque cliniche che si vantano di avere come “major partner” strutture pubbliche cinesi, tra cui le Commissioni della Pianificazione Demografica dello Jiangsu, dello Xian, dello Henan, nonché il Centro Distrettuale per il Controllo delle Malattie di Qingdao Shinan, l’Ufficio Sanitario della città di Baoshan, l’Ufficio Provinciale per l’Educazione e la Prevenzione dell’Aids del Guangxi e l’Ufficio Provinciale per il Problema dell’HIV dello Yunnan. L’Organizzazione abortista inglese afferma di svolgere programmi di family planning (“pianificazione familiare”) ma – osserva Amato – questa è “mera mistificazione”, dato che in Cina chi pianifica le nascite è lo Stato e non le famiglie, e in quel Paese pianificazione familiare “ha un suono sinistro perché è sinonimo di sterilizzazione e aborti forzati”.

Somme enormi sono circolate e circolano anche intorno al business della pillola abortiva Ru486. La fabbrica francese Exelgyn, che la produce e la distribuisce, nel 2009 ha registrato un giro d’affari di oltre 14 milioni di euro. Ricorda[7] Ilaria Nava che, in America, il brevetto dell’Ru486 viene donato nel 1994 dalla Roussel Uclaf (l’azienda che in origine produceva la pillola) all’Istituto di ricerca Population Council di New York, il quale subito dopo riceve dalla Buffet Foundation (finanziatore anche della Planned Parenthood) un prestito senza interessi da 2 milioni di dollari. La commercializzazione vera e propria della pillola inizia, però, solo nel 2000, quando l’azienda distributrice negli USA, Danco Laboratories (che ha tra i suoi prodotti solo l’Ru486), sceglie come produttore l’azienda statale cinese Hua Lian Pharmaceuticals, con sede a Shangai, che già produceva la pillola per la Cina da almeno 9 anni. Ad aiutare la casa farmaceutica cinese a raggiungere gli standard di produzione richiesti negli USA, interviene con consistenti elargizioni la Rockefeller Foundation. La Danco, a sua volta, riceve un prestito di 10 milioni di dollari dalla David e Lucile Packard Foundation, un’organizzazione che si occupa di “salute riproduttiva” nelle aree del mondo ad alta fertilità, come India, Nigeria, Etiopia, Pakistan e Filippine. Insomma, come osservavamo all’inizio: un bell’intrico di interessi economici e ideologici.

Ovunque si guardi, l’aborto riesce sempre a generare esorbitanti somme di denaro. In Spagna, per esempio, la quasi totalità degli aborti (97%) è realizzata in strutture private. Scrive[8] Avvenire che le organizzazioni pro-life hanno calcolano che il business degli aborti in questo Paese raggiunge ricavi annuali di circa 50 milioni di euro, senza contare le interruzioni pagate in nero, senza alcuna traccia fiscale. Se si guarda al ginecologo spagnolo Carlos Morìn, si può vedere come il business dell’aborto lo abbia fatto diventare enormemente ricco. Scrive[9] La Razon, che prima di arrivare in Spagna, il ginecologo peruviano viveva nel quartiere povero di Lima, Trujillo, mentre adesso, grazie al denaro guadagnato con gli aborti, abita in una delle zone più ricche di Barcellona, Sant Cugat del Vallés, in una villa del valore di 4,2 milioni di euro (la “Villa Morìn”) con vista su un campo da golf, una piscina, ampio giardino, e molte auto di lusso in garage, tra cui una Ferrari. Scrive il quotidiano spagnolo che nel 2005, la Ginemedex, una delle sue cliniche più attive, ha fatturato 1,5 milioni di euro, ma il giro d’affari è sicuramente sottostimato, dato che l’inchiesta ha scoperto che “le ragazze che passavano sotto le sue mani pagavano i compensi in nero”.

Il business dell’aborto non finisce qui: somme enormi di denaro non arrivano unicamente dall’esecuzione delle interruzioni, ma anche dallo smercio del “materiale di scarto”, ovvero dalla vendita dei feti abortiti per scopi cosmetici, farmacologici e di ricerca. Nell’aprile 2011, l’avvocato Virginia Lalli, responsabile del Settore Donne per Nuove Frontiere onlus, ha riepilogato in un articolo[10] molti degli utilizzi del prezioso “materiale”. Scrive la Lalli che, quando i ricercatori dell’Università di Losanna hanno notato che i bambini ad aver subito interventi chirurgici mentre si trovavano nell’utero materno, non presentavano alcuna cicatrice una volta nati grazie alla capacità rigeneratrice delle cellule fetali, hanno pensato che tali cellule potevano essere utilizzate per il trattamento delle ustioni. Dalla medicina alla cosmesi il passo è stato breve: gli studiosi si sono associati al laboratorio privato Neocutis, autorizzandolo a commercializzare la prima crema antirughe a base di cellule di pelle di feto. La crema si può comprare negli USA su prescrizione medica al prezzo di 180 dollari, e via internet in Europa a 90 euro. La notizia ha suscitato immediate proteste[11] unite all’invito a boicottare tutti i prodotti della società bio-farmaceutica elvetica, tanto che i suoi responsabili si sono affrettati a chiarire: “In nessun caso, noi incoraggeremo l’aborto”.

La pratica di usare cellule di feti abortiti per la cosmesi non è una novità, nel 2004 il Guardian aveva pubblicato un articolo a proposito di una compagnia cinese che fabbrica cosmetici utilizzando feti abortiti. In Cina, grazie alla politica del figlio unico, varata nel 1978, la pregiata “materia prima” – soprattutto di genere femminile – di certo non manca. Secondo i dati diffusi nel 2013 dal Ministero della Sanità cinese, sarebbero infatti 336 milioni gli aborti registrati praticati nella Repubblica popolare cinese dal 1971, una media di 8 milioni Ivg all’anno, più di 15 aborti al minuto. In questo Paese – osserva Avvenire[12] – il problema dell’uso di feti e neonati morti è ricorrente: già nel 2006 – come riportato da AsiaNews -, sono stati scoperti in una discarica pezzi di corpi di neonati trattati con sostanze aromatiche. Mentre nel 2003, l’ufficio di Pubblica sicurezza del Guangdong ha cercato di bloccare notizie secondo cui in alcuni ristoranti della provincia meridionale si cuocevano bambini morti in zuppe, per servirle a uomini d’affari di Taiwan e Hong Kong. Secondo la polizia, la storia era stata inventata per rovinare l’immagine della Cina, ma l’accusa non regge, poiché sempre nel Guangdong, negli anni Novanta, era stato scoperto un traffico di feti da bollire, per realizzare zuppe da vendere come cure di bellezza. La Cina ha suscitato nuovo sconcerto e orrore nel 2011, quando la televisione coreana Sbs ha mandato in onda un documentario in cui si denunciavano i “traffici” tra certune aziende farmaceutiche cinesi e alcune cliniche abortiste, aventi come finalità la produzione di pillole ricavate da feti umani abortiti e resti di bambini morti. Dall’agosto 2011 le autorità doganiere di Seul hanno sequestrato, in 35 diversi tentativi di contrabbando, all’incirca 17.450 compresse composte per il 99,7% di materiale umano. Le indagini hanno permesso di scoprire come avveniva l’intero processo di approvvigionamento e produzione della sostanza. In molti ospedali cinesi, ogni volta che una donna abortiva o partoriva un feto morto, medici e infermieri corrotti informavano le aziende farmaceutiche e riponevano i corpicini dei bambini in normali frigoriferi domestici. Una volta giunti nei laboratori per la lavorazione, i corpicini venivano tagliati a pezzi e messi ad essiccare in speciali forni a microonde, poi la loro pelle veniva liofilizzata, mescolata con alcune erbe ed altre sostanze chimiche, ed infine trasformata in pasticche “miracolose” volte a curare ogni malattia ma, in particolare, ad aumentare il vigore sessuale e combattere l’impotenza. In realtà, le analisi biochimiche hanno rivelato la presenza di batteri pericolosi per la salute, mentre alcuni test compiuti sulle capsule avrebbero permesso addirittura di risalire al Dna e al sesso dei bambini usati per la produzione dell’orrida “medicina”.

Il business dell’aborto non finisce qui: oltre che per fini cosmetici e “medici”, i bambini abortiti sono smerciati anche per finalità legate alla ricerca come, per esempio, elaborare vaccini o testare sostanze nocive. Ricorda Lalli che molte ricerche mediche sono state effettuate, e lo sono ancora oggi, su bambini abortiti ancora in vita. Negli anni ’70, il dottor Lawrence Lawn, del Dipartimento di Medicina Sperimentale di Cambridge, compiva esperimenti su bimbi vivi abortiti, giustificandosi così: “Usiamo semplicemente per il bene dell’umanità qualcosa che è destinato all’inceneritore… non li avrei mai fatti su un bambino vivo”. Sempre in Inghilterra – continua Lalli – la Langhman Street Clinic (specializzata in aborti) vendeva feti vivi tra la 18a e la 22a settimana al Middlesex Hospital. Philip Stanley, portavoce della clinica, ha dichiarato: “La posizione è chiara. Un feto deve avere 28 settimane di vita perché sia riconosciuto legalmente come essere umano. Prima di questo momento equivale a spazzatura”. Lalli prosegue osservando che vi sono cliniche che consigliano alla donna che vuole abortire di ritardare l’intervento, per poter usufruire di bambini ben sviluppati, con organi funzionali e in perfette condizioni. Questi bambini di 18 settimane e più, vengono estratti con taglio cesareo, permettendo così al medico abortitore di soddisfare le richieste rigorose degli acquirenti (industria farmaceutica, cosmetica, ricercatori universitari). Costoro pagheranno per il feto abortito tra i 70 e i 150 dollari, ricevendolo con il certificato: estratto dal seno materno “in stato di vita”.

Entrando nel dettaglio degli usi a fini di ricerca, Lalli riporta alcune denunce uscite a mezzo stampa. Certi vaccini contro l’influenza sono prodotti utilizzando polmoni di bambini abortiti; per il vaccino Salk contro la Poliomielite sono utilizzati copiosamente gli intestini di bambini non nati; i loro reni sono, invece, impiegati per la coltivazione di virus nelle ricerche sull’immunologia e la biochimica. Il 9 gennaio 1980, la rivista Chemical Week ha rivelato che alcuni scienziati hanno tentato di produrre un vaccino contro il raffreddore, iniettando questo virus nel dotto nasale di bambini non nati. Il 26 luglio 1980, il Sun Time di Chicago ha riportato la notizia dell’esecuzione di test su embrioni umani per verificare l’azione dei pesticidi. Quattordici bambini abortiti sono stati usati da una ditta farmaceutica per provare l’efficacia di alcuni prodotti contro l’ipertensione. Lalli fa anche notare come ci sia stata una coincidenza temporale tra la scoperta di alcuni vaccini tra la fine degli anni ’60-inizio anni ’70 e la concomitante esplosione di leggi abortiste nei paesi cosiddetti “democratici”.

In sostanza, come si può vedere, con le interruzioni di gravidanza l’industria dell’aborto ci guadagna due volte: prima con l’esecuzione dell’intervento, e poi con la vendita dei feti abortiti a case farmaceutiche, cosmetiche ed istituti di ricerca. Questo secondo business, che si estende su scala mondiale, – scrive Lalli – nel 2000 rendeva già un miliardo di dollari americani.

Più di recente, luglio 2012, è stata la Russia a finire sui giornali per il commercio, probabilmente illegale, di feti abortiti, quando a Ekaterinburg, città situata sul lato asiatico degli Urali, alcuni cercatori di funghi hanno rinvenuto cinque botti di legno contenenti 248 embrioni umani delle dimensioni di circa 10 centimetri. L’ufficio stampa della regione ha dichiarato che gli embrioni sono “scarti medico-biologici di almeno tre cliniche di Ekaterinburg”, mentre la polizia che è intervenuta chiedendo spiegazioni ai rappresentanti locali del ministero della sanità, ha detto di avere “l’impressione che l’organizzazione che si occupa dall’eliminazione di questi ‘scarti’ non abbia eseguito le disposizioni del suo cliente”, limitandosi a gettare via gli embrioni. Diverso è il parere di Elena Mizulina, presidente del Comitato della Duma per le questioni della famiglia, delle donne e dei bambini, che invece ipotizza si tratti di traffico illegale di embrioni. “Ogni anno nel nostro Paese – ha detto Mizulina – si fanno aborti illegali nell’ordine di 5-6 milioni”, in Russia agisce un’intera industria che fornisce materiale abortivo alle aziende farmaceutiche e a quelle che producono cosmetici, “non si esclude che aspettassero un controllo degli organi di sorveglianza e perciò abbiano deciso di liberarsi di prove del reato”[13].

Ora si comprende meglio perché, a livello globale, vi è interesse a tacere le conseguenze sulla salute causate dall’aborto: se le donne si rendessero conto che è l’aborto che fa male e non la gravidanza portata a termine la quale è, anzi, protettiva della salute, smetterebbero di ricorrervi e l’industria dell’aborto andrebbe incontro al fallimento. Se le donne si rendessero conto di essere state ingannate da chi ha agitato loro lo specchietto per allodole del “diritto di scelta” e “diritto di aborto”, e ricominciassero a portare avanti le gravidanze invece di interromperle, e a pretendere dai governi politiche economiche, sociali e fiscali a sostegno della maternità, legittimate dal fatto che i figli sono una ricchezza che va a beneficio dell’intera collettività, coloro che oggi si arricchiscono armeggiando nei loro grembi, coloro che trafficano con il prezioso “materiale biologico” per fare costose creme di bellezza con cui le donne potranno spalmarsi in viso i propri figli abortiti, coloro che ingrassano il conto in banca con il sangue innocente, con il dolore delle madri e a discapito della loro salute, dovrebbero dire addio ai loro enormi e facili guadagni.

Care donne che gridate “l’aborto è un diritto!”, c’è chi si frega le mani pensando al grasso “…profitto!”. All’industria dell’aborto i grassi guadagni, alla donna il “diritto” di farsi male; all’industria dell’aborto i grassi guadagni, alla donna il “diritto” di fare i conti con l’uccisione del figlio che portava in grembo; all’industria dell’aborto i grassi guadagni, alla donna il “diritto” di portarsi dietro le conseguenze di quella scelta per tutta la vita.

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Note:
[1] “Dietro l’aborto c’è un business miliardario”, www.uccronline.it.
[2] Www.plannedparenthood.org/files/AR_2007_vFinal.pdf.
[3] Penny Starr, “Planned Parenthood’s Govt Funding Rose to $363.2 Million in FY 2008-2009, Aborted 324,008 Unborn Children in 2008”, Cnsnews.com, 23 dicembre 2010.
[4] Joseph Abrams, “Planned Parenthood Director quits after watching abortion on ultrasound”, www.foxnews.com, 2 novembre 2009.
[5] Emilyslist.org/news/releases/top_pac
[6] G. Amato, “Una società pro aborto inglese usa i fondi pubblici per ‘aiutare’ i cinesi a non aver figli”, www.ilsussidiario.net, 7 giugno 2010.
[7] I. Nava, “Business miliardario e fiumi di ideologia”, www.piuvoce.net, 8 aprile 2010.
[8] Michela Coricelli, “Spagna, nella clinica dell’orrore aborti segreti pagati dal Comune”, Avvenire, 22 marzo 2011.
[9] Miguel Soria, “El negocio del aborto de Morìn”, www.larazon.es, 26 febbraio 2011.
Secondo il quotidiano spagnolo, le giovani che si rivolgevano alle cliniche private di Morìn, avrebbero pagato dai 3mila ai 6mila euro per l’interruzione della gravidanza. Al ginecologo non interessava né l’età della donna (alcuni aborti sono stati praticati su bambine di 13 anni) né l’età della gestazione, anzi, questi erano casomai fattori importanti per aumentare il prezzo dell’aborto. Morìn è finito davanti al giudice per aver praticato almeno “115 aborti illegali”, alcuni dei quali riguardano donne alla 22a settimana di gestazione, sette aborti si riferiscono a gestazioni di 27, 28 e 29 settimane, uno è stato praticato a 30 settimane e un altro a 35. Sotto accusa sono finiti anche una decina di suoi collaboratori, tra cui due psichiatri che avrebbero certificato falsi problemi psicologici alle donne: le indagini hanno scoperto che i certificati erano “in bianco”, molti dei quali sprovvisti di firma.

La Razòn ha reso noto che, per sbarazzarsi dei feti abortiti, Morìn utilizzava tre “trituratori”, di cui uno di tipo industriale, dal peso di 95 chili e con una capacità di 400 chili l’ora, di quelli che generalmente si usano nei macelli per il pesce. Una testimone ha riferito che, quando gli aborti avvenivano di notte, i bambini venivano messi in congelatore e tritati il giorno successivo, per non disturbare i vicini con il rumore emesso dal macchinario.
[10] V. Lalli, “La crema antirughe ottenuta da feti umani abortiti: ecco come i bambini non nati sono equiparati a spazzatura”, www.virginialalli.com/index_18.htm.
[11] Si veda per esempio: Valerie Richardson, “Aborted fetus cells used in beauty creams”, The Washington Times, 3 novembre 2009.
[12] Luca Miele, “Pechino, sequestro choc: medicine con resti umani”, Avvenire, 9 maggio 2012.
[13] Giovanni Bensi, “Orrore a Mosca, 248 embrioni buttati via”, Avvenire, 27 luglio 2012.

di Lorenza Perfori

Festini

 

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