02/01/2015

No all’ eutanasia : la prudenza non è mai troppa

La cultura della morte preme per l’accettazione sociale dell’ eutanasia e del suicidio assistito.

Infatti i cultori della morte ignorano che la persona è soggetto di relazione per definizione: la sua vita non è mai un “affare privato”. Per questo l’antica tradizione giuridica pone il diritto alla vita tra i diritti “indisponibili”. 

Quando si discute di argomenti di bioetica l’attenzione si concentra spesso su casi estremi – ma fortunatamente assai rari – che vengono utilizzati in maniera strumentale quale espediente per introdurre nella mentalità comune e nella legislazione prassi contrarie alla tutela della vita dal momento del concepimento fino alla morte naturale. Un modo di procedere di questo tipo sollecita il confronto e la ricerca continua di argomentazioni solide per non spegnere il pensiero dell’uomo.

Si prenda per esempio in esame il delicato e complesso tema del ‘fine vita’. Nella mentalità comune l’ eutanasia viene concepita come la possibilità di porre fine a quelle vite che appaiono ‘indegne di essere vissute’ e, in tale ottica, viene spesso intesa come un atto di civiltà, perché portatrice di una sorta di ‘pietà’ nei confronti di una persona che versa in stato di sofferenza.

A questo livello si aprono grandi questioni, quali ad esempio: com’è possibile stabilire un criterio di giudizio univoco circa il livello di dolore che è possibile e giusto sopportare? E se il dolore in oggetto fosse di natura spirituale, quindi misurabile solo soggettivamente? Inoltre, il dolore dettato da una malattia fisica conclamata può essere percepito in maniera totalmente differente a seconda dei soggetti: come ci si dovrebbe regolare? E se il soggetto non avesse la possibilità di esprimere la propria volontà? Ma soprattutto: in virtù di quale motivazione la società dovrebbe garantire quale diritto civile la possibilità di porre fine alla propria vita?

Dare risposta a domande di così grande portata è complesso perché sono argomenti che interessano l’essenza stessa dell’uomo e la concezione – non necessariamente confessionale – con cui si guarda alla vita. Tuttavia vi sono degli strumenti che possono essere d’aiuto, e tra questi vi è la scienza. Per esempio, nel mese di novembre sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Science Daily i risultati di una ricerca intrapresa alla Saint Louise University, secondo i quali sarebbe possibile ‘inibire’ la sensazione di dolore. Questa acquisizione medica ha una portata rilevante, dal momento che apre una prospettiva nuova di impegno finalizzato a combattere il dolore, anziché a uccidere il paziente.

Un secondo canale di riflessione concerne le conseguenze sociali di certe prassi che si vorrebbero autorizzare. Nella rivista Bioethics, Roland Kipke ha recentemente affermato che, nel momento in cui si accetta come lecito il suicidio assistito, bisognerebbe anche consentire la nascita di un vero e proprio ‘mercato’ della morte indolore, un ‘commercially-assisted suicide’ (CAS). Secondo questa prospettiva, le persone che decidessero di porre fine alla propria esistenza potrebbero essere supportate e assistite, e soprattutto sarebbero aiutate nel reperire la dose letale. Questa ipotesi, che peraltro in alcuni Stati è già realtà, mette tuttavia in chiara luce un paradosso: i medici, da cultori della vita, si trasformerebbero in cultori della morte! Inoltre, legalizzare una cosa simile introdurrebbe gradualmente nella mentalità comune l’idea che il suicidio assistito sia una cosa normale, proprio in quanto lecita.

È quindi evidente quanta responsabilità comporti il muoversi in campo bioetico, data la delicatezza e l’enorme complessità dei temi presi in esame. Come si è visto, inoltre, la scienza è in continua evoluzione, così come è di primaria importanza fermarsi ad analizzare le conseguenze immediate e future di quanto s’intende proporre, sia sulla società nel suo complesso, sia sui singoli individui.

Giulia Tanel

 

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