13/02/2015

Sanremo gender – 1 – Il problema non è il compenso

Sanremo 2015: l’annuncio della partecipazione di Conchita Wurst (la drag queen austriaca – un travestito con tanto di barba – vincitore dell’Eurovision Song Contest 2014) ha provocato e continua a provocare molto scalpore.

Polemiche su polemiche:

sull’opportunità della sua presenza in una trasmissione così importante della RAI, in prima serata, sul compenso (che in un primo momento sembrava di 120 mila euro, poi di 12 mila, ancora non è chiaro a quanto ammonti), polemiche su alcune associazioni del mondo cattolico che hanno invitato il pubblico a boicottare il Festival e a tenere lontani dalla TV i bambini. Infine ancora polemiche sull’effettiva consistenza artistica e canora di questo personaggio: qualcuno si chiede infatti dove sarebbe arrivato con le sue sole doti di cantante se l’astuto Tom Neuwirth (è questo il suo vero nome) si fosse presentato fin dall’inizio in giacca e cravatta invece che con reggiseno e tacchi a spillo.

Quale posizione prendere in merito?

Va detto prima di tutto che il problema non è e non può essere il compenso. La questione è invece relativa al significato implicito, più o meno occulto, che una presenza di questo tipo sottende, rispetto al puro evento mediatico-commerciale in sé.

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Proviamo a chiarire. Credo sia per prima cosa interessante rilevare che “drag queen” è un termine che viene usato per indicare personaggi del mondo dello spettacolo, solitamente gay o transgender, che si esibiscono indossando abiti femminili.
Ma il termine, in sé, sembrerebbe derivare dal verbo “to drag”, “trascinare”.
Ed è questo il punto: il trascinamento.

Già Pier Paolo Pasolini – uno dei nostri più acuti intellettuali del secondo dopoguerra, omosessuale intelligente – aveva avvertito il rischio farsi “trascinare” dal medium televisivo, fino al verificarsi di vere e proprie alterazioni del comportamento, e più in generale degenerazioni sociali e culturali. Per Pasolini il trascinamento, l’omologazione, era osservabile già a partire dagli strati sociali più culturalmente indifesi: i giovani di borgata avevano infatti iniziato a vestire, comportarsi, pensare seguendo passivamente i modelli proposti allora dalla televisione. Con un acuto riferimento alla biologia (cosa che fa pensare anche a Oswald Spengler e al suo capolavoro Il tramonto dell’occidente), Pasolini denominò questi fenomeni col termine di “mutazione antropologica”, indicando con questo termine anche il fatto che la variazione delle mode e dei desideri della collettività è decisa prima nei consigli d’amministrazione delle reti televisive nazionali e poi viene fissata nelle menti dei telespettatori tramite messaggi manipolatori subliminali, la pubblicità, i programmi d’intrattenimento e così via.

In campo più marcatamente filosofico, non si può dimenticare che anche un pensatore del calibro di Karl Popper ha riflettuto con preoccupazione sulla violenza che la televisione fa ai più indifesi, soprattutto ai bambini. La televisione trascina, appunto. In “Cattiva maestra televisione” (1994), analizzando i contenuti dei programmi e gli effetti sugli spettatori televisivi, Popper era giunto alla conclusione che il piccolo schermo fosse diventato ormai un potere a sé stante, incontrollato, capace di immettere nella società modelli violenti, in grado di influenzare concretamente la visione del mondo, le scelte di vita, le azioni ed i comportamenti degli individui. La televisione cambia radicalmente l’ambiente e dall’ambiente così brutalmente modificato i bambini traggono i modelli da imitare: ne vengono trascinati. Tanto che se non si attuano contromisure, il rischio in cui si incorre – secondo Popper – è quello di avere giovani sempre più disumanizzati, violenti ed indifferenti.

Certamente si può andare ben oltre lo scomodare Popper e Pasolini per sostenere l’idea che la televisione abbia un potere formativo o addirittura di manipolazione vera e propria che è spesso – soprattutto in relazione all’audience – smisurato.

In questo senso dovremmo ricordare anche John Condry. Secondo questo studioso, occorre saper distinguere tra i fini “espliciti”, manifesti, del mezzo televisivo e i suoi fini “latenti”, e lasciare emergere la corrispondente diversificazione valoriale. La sua analisi diventa prevedibilmente lapidaria ed inappellabile nelle sue conclusioni: la televisione “…presenta idee false e irreali, non possiede un sistema di valori coerente se non il consumismo” , anzi, precisa lo studioso “i suoi valori sono i valori del mercato”. (John Condry, Thief of time, unfaithful servant. Television and the American child, 1993)

A questo proposito c’è chi sostiene che l’ideologia gender (perché è di questo che stiamo evidentemente discutendo) sia – tra le altre cose – funzionale all’ottica del consumo globale. La riduzione delle differenze, la massificazione, l’annullamento della famiglia, realizzano l’idea di un unico soggetto-oggetto di consumi, unisex per l’appunto, tanto più facilmente manipolabile quanto più sprovvisto di un solido principio d’identità e quindi incapace di identificarsi e di relazionarsi anche criticamente con “l’altro da sé”, figuriamoci con le ansie dei propri bisogni materiali, reali o presunti che siano. La vocazione consumistica, da questo punto di vista, è dunque uno solo dei fini latenti dell’istituzione-tv e questo fattore ideologico comporta che non solo gli spettatori finiscano inconsapevolmente prigionieri delle logiche di mercato, prima di tutte quelle della concorrenza (per cui ogni mezzo è lecito pur di aumentare l’audience), ma si ritrovino anche profondamente influenzati dal meccanismo distorsivo e di stravolgimento e di inversione di quei valori o fini manifesti di promozione dello sviluppo civile, di benessere sociale, di diffusione della giustizia, della cultura, della solidarietà, del rispetto dell’altro, della tutela dei più deboli, in modo da trovarsi alla fine schiacciati dalle logiche perverse del sistema. Non era il maestro del Nichilismo moderno, Friedrich Nietzsche, a parlare di inversione, di trans-valutazione di tutti i valori?

Arrivare sul palco di Sanremo non è certo facile. Comunque sia, è sintomo di successo. Qualsiasi spettatore parte da questa implicita consapevolezza. In un modo o nell’altro, i protagonisti dello spettacolo diventano così dei modelli di comportamento, quando non addirittura dei (cattivi) maestri di pensiero. Introdurre dei modelli che “infrangono le regole” (in questo caso che rappresentano la negazione felice e sorridente, direi “distratta”, della normalità naturale) ha come effetto una generale rassicurazione ed un globale torpore delle coscienze. Il messaggio inconsapevole è questo: se ha successo uno così, palesemente contrario al principio della normalità e dell’evidenza naturale, allora sono normali tutti, e lo sono anch’io, nelle mie piccole o grandi debolezze. Più in generale: se anche ciò che è sbagliato diventa accettabile, allora anch’io, nei miei errori, posso pretendere di essere accettato e rispettato.
O, perché no, magari avere successo.

L’introduzione di questi personaggi “di successo”, in televisione, introduce di fatto un modello artificiale di normalità, costruito ad arte sulle nostre ansie, sulle nostre paure, sulle nostre debolezze. In questo modo il Relativismo entra di prepotenza – anche se in modo subdolo e mistificato – nelle coscienze degli individui, facendo una presa che sarà difficile estirpare, soprattutto nei più deboli: nei più giovani. La negazione del principio di evidenza naturale è la porta maestra attraverso cui questa ondata pervasiva di Relativismo culturale (e quindi inevitabilmente etico) si diffonde, senza trovare ostacoli nella misura in cui i messaggi che vengono fatti passare sono indiretti e come dire, subliminali.

Il principio generale che garantisce la psicosi individuale e sociale è questo: ciò che la televisione trasmette è in fondo percepito inconsciamente come una garanzia di verità, in quanto istituzione che sfugge al nostro controllo ed è controllata da apparati tecnici e scientifici, quando non culturali, che tutti noi siamo portati a dare per scontati: “l’ho visto in televisione”, dicono i bambini quando vogliono dare garanzie di ciò che affermano.

Vengono in mente, a proposito di negazione del principio dell’evidenza naturale, di psicosi e bambini, le parole di Italo Carta (ordinario di psichiatria e direttore della Scuola di specializzazione in Psichiatria all’Università degli studi di Milano): Quando si abolisce il principio di evidenza naturale la mente compensa con squilibri psicotici gravissimi. Per questo pensare di introdurre l’uguaglianza dei sessi come normale significa attentare alla psiche di tutti. Penso poi ai più deboli: i bambini. Se gli si insegna sin da piccoli che quel che vedono non è come appare, li si rovina. Ripeto, pur non essendo solito fare affermazioni dure, dato che gli omosessuali sono persone spesso duramente discriminate [non è proprio così ... ndr], non posso non dire che introdurre l’idea che la differenza sessuale non esiste, e che quindi non ha rilevanza, è da criminali”.

Siamo davvero sicuri che la polemica su questi “modelli” televisivi sia motivata soltanto dalla questione dei compensi o dall’arretratezza culturale delle associazioni cattoliche?

Alessandro Benigni

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