23/07/2018

Sessantotto in Cecoslovacchia: la primavera di Praga

Come tutti sanno, quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario del Sessantotto, un fenomeno che rappresenta una pietra miliare del processo di abbandono della metafisica e della legge naturale.

In fondo, è da lì che nasce l’attuale rifiuto dei principi non negoziabili, ossia di norme morali e religiose assolute ed eterne.

Come abbiamo visto, questo fenomeno ha origini statunitensi ma si sviluppa e diffonde in Europa; a partire dai paesi “oltre-cortina”, in particolare in Polonia e Cecoslovacchia.

Il Sessantotto cecoslovacco è passato alla storia come “la primavera di Praga”: il Primo Segretario Alexander Dubček (1921-1992) avrebbe tentato di promuovere delle riforme liberali (il “socialismo dal volto umano”) ma il suo progetto sarebbe stato soppresso dall’intervento armato di Mosca.

Questa ricostruzione fa sorgere diversi dubbi. Il “programma d’azione” (questo il nome ufficiale del “comunismo dal volto umano”) di Dubček prevedeva un allentamento della censura, l’autorizzazione di piccole imprese  agricole private (come ne esistevano in Polonia) e la ricerca di crediti presso istituzioni occidentali. È sufficiente per giustificare l’intervento armato dell’agosto del ‘68 da parte di Mosca? Vale la pena ricordare che la locuzione “primavera di Praga” (sconosciuta oltrecortina) fu inventata dai media occidentali ispirandosi alla “primavera dei popoli”, la rivoluzione liberale che sconvolse l’Europa nel 1848; e che il “socialismo dal volto umano” era comunque socialismo, per di più ispirato all’austro-marxismo (non certo al liberismo occidentale).

Le cose si chiariscono allargando lo sguardo e prestando attenzione al contesto politico internazionale.

Pochi mesi prima era avvenuta la Guerra dei sei giorni tra Israele da una parte e Repubblica Araba Unita, Siria, Giordania e Iraq dall’altra. La guerra si era conclusa in poco tempo con la vittoria di Israele; come conseguenza di questi avvenimenti, l’URSS (alleata con i paesi arabi) e i suoi satelliti satelliti interruppero le relazioni diplomatiche con Israele.

È in questo contesto che va collocata la primavera di Praga che, ad uno sguardo attento, ha più a che fare con il Sessantotto nostrano che con presunte riforme liberiste.

La Cecoslovacchia, come la Polonia, era un paese a forte tradizione ebraica; Praga, in particolare, era una città simbolo per gli ebrei europei. A differenza di quanto accadeva in Polonia, invece, le relazioni tra il potere sovietico e la comunità ebraica erano tutt’altro che buone.

Questo anche a causa del celebre “processo Slánský” del 1952, durante il quale il Segretario Generale del Partito Rudolf Slánský (1901-1952) ed altri ebrei che occupavano posizioni di spicco nell’apparato sovietico vennero condannati a morte nel corso di un processo politico voluto e gestito da Mosca.

Sta di fatto che, nel maggio del 1968 (a diversi mesi dall’inizio del «programma d’azione» di Dubček) gli studenti occuparono la facoltà di filosofia dell’università di Praga e scesero in piazza con bandiere di Israele e cartelli con scritto «Lasciate vivere Israele». Venne fatta partire una raccolta di firme (13.662 il numero finale) perché il governo cecoslovacco riprendesse le relazioni diplomatiche con Israele. Il mese successivo il settimanale studentesco Student pubblicò una intervista con il capo del Dipartimento Europa Orientale del Ministero degli Esteri israeliano e annunciò la creazione di una associazione studentesca denominata «Unione degli amici di Israele». Il governo fece dei passi in questa direzione, annunciando (atto gravissimo nei confronti dell’URSS) una ripresa dei rapporti con Israele e riabilitando Ladislav Mňačko (1919-1994), intellettuale ebreo membro del partito che, dopo la Guerra dei sei giorni, emigrò in Israele per protestare contro la posizione anti-israeliana assunta dalla Cecoslovacchia.

La notte del 20 agosto 1968 forze russe, tedesco-orientali, polacche, ungheresi e bulgare invasero la Cecoslovacchia, mettendo fine al cambio di politica estera (non tanto economica o interna) del paese.

Dubček venne confermato al suo posto, che conservò fino all’anno seguente.

Come in Polonia, anche il Sessantotto cecoslovacco finì con una aliyah (ritorno): tra l’agosto del 1968 e il febbraio del 1969 circa trentacinquemila ebrei cecoslovacchi lasciarono il paese e si trasferirono in Israele.

Tutto questo cosa ci insegna? Innanzitutto che il Sessantotto non fu un fenomeno spontaneo. Anche solo il fatto che i primi paesi europei ad esserne coinvolti furono due paesi «oltre-cortina» (non avevano, cioè, alcun rapporto culturale con il mondo cosiddetto «occidentale») è significativo.

Secondariamente, che fu essenzialmente un progetto di destabilizzazione politica i cui fattori ancillari (rifiuto dell’autorità e rivoluzione sessuale) ebbero un effetto più devastante e duraturo di quanto lo fosse l’obiettivo primario.

Per fare un esempio, è come se io decidessi di eliminare le lumache nel mio orto gettandoci del sale: le lumache spariranno, ma il terreno resterà sterile per parecchio tempo.

Questo è il motivo per cui la filosofia occidentale (la virtù della prudenza) e la morale cattolica hanno sempre vietato di utilizzare strumenti malvagi per fare del bene (ammesso che la destabilizzazione politica sia un bene): il fine non giustifica i mezzi (CCC § 1753) e non è lecito compiere un male perché ne derivi un bene (CCC § 1756).

L’ignoranza di questo fondamentale principio morale è la causa della dissoluzione che il Sessantotto ha portato nella nostra società.

Roberto Marchesini

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