15/10/2018

Suicidio ed eutanasia: il male di vivere in un eterno presente

L’altissimo ricorso al suicidio (fenomeno un tempo rarissimo) è ormai diventato una delle caratteristiche tristemente peculiari della società post-moderna.

Apparentemente potrebbe sembrare una contraddizione: la società in cui viviamo, è quella in cui stiamo assistendo al trionfo della tecnologia e al proliferare di scoperte scientifiche che ci assicurano un tenore di vita infinitamente superiore rispetto persino a quello di qualunque re e imperatore del passato. Eppure, oggi, nonostante l’esperienza della sofferenza sia notevolmente ridotta e lo stile di vita non sia più duro e improntato alla sopravvivenza stretta, come un tempo, sempre più gente decide che la propria vita non sia più degna di essere vissuta.

Ne parla anche Rino Cammilleri sulla Nuova Bussola QuotidianaRispetto agli altri stati europei, l’Italia è uno dei paesi che ha il più basso tasso di suicidi: eppure se ne verificano ben 4.000 l’anno, mentre tra i paesi in cui il fenomeno è più allarmante ci sono Belgio e Inghilterra, dove, guarda caso, l’eutanasia è una pratica ormai diffusa. Addirittura nel Regno Unito è stato istituito un ministero ad hoc per la prevenzione del fenomeno che, dal 2010, avrebbe subito un’impennata del 67%, suicidi che riguardano soprattutto gli uomini. Ma probabilmente in Inghilterra sarebbe bastato non depenalizzare l’eutanasia per non aggravare una situazione già di per sé critica.

Il punto, infatti, riguarda proprio la mentalità di chi arriva a togliersi la vita e di cui è permeata la società. La vita è vista e vissuta, oggi, non più come un dono bensì come un bene effimero, in quanto proiettata in un eterno presente entro cui circoscrivere ogni esperienza, consumarla e sbarazzarsene quando perde gusto o genera sofferenza.

Drammaticamente assente è, oggi più che mai, ciò che costituiva la “stoffa” della società di un tempo e cioè una prospettiva trascendente verso la quale ogni ingiustizia, ogni fallimento, ogni fragilità, ogni dolore vissuto nella propria esperienza umana possa essere proiettato trovando finalmente un senso. Una prospettiva che può appartenere solo a una società pervasa di senso religioso, in cui non solo la vita ma anche la morte ha una dignità ed è un evento che merita di essere vissuto per quello che è: come un importante rito di passaggio verso una nuova vita che si apre.

In questa prospettiva non è contemplato il “male di vivere“, quello che oggi porta a scegliere il suicidio e l’eutanasia come la soluzione a tutti i problemi, perché in una vita vissuta secondo una prospettiva “ultima” nessuno è mai fallito del tutto. Per questo nella società cristiana di un tempo il criterio odierno di “dignità della vita” (secondo cui alcuni stabiliscono chi meriti di vivere e chi no), che oggi porta a considerare l’aborto un diritto e l’eutanasia una conquista di civiltà, non era nemmeno pensabile. Ogni vita era degna di essere vissuta perché voluta, e voluta così. E la dimensione comunitaria, la coesione sociale, erano estremamente forti perché ci si sentiva tutti parte di qualcosa di più grande che accomunava, univa, impedendo alla solitudine di farsi spazio e di attecchire nell’animo. Solitudine che oggi, nella maggior parte dei casi, porta alla depressione e a sentirsi circondati, in una stretta mortale, dal nulla, e prima o poi, a finirci dentro.

Manuela Antonacci

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