08/05/2018

Twitter ai tempi del Grande Fratello: Kevin Williamson

Il fatto che viviamo sotto perenne controllo è cosa nota: non possiamo telefonare, fare un pagamento, collegarci a Twitter o a Facebook, andare dal medico senza essere schedati in ogni nostra azione. Nonostante lo sappiamo, tuttavia, accettiamo tutto senza troppi patemi d’animo: così va il mondo nel 2000, alternative non ce ne sono (a meno che non si voglia vivere da eremiti). Il tutto fino a quando non emerge un caso eclatante, come può essere quello di Facebook e Cambridge Analytica o come quello che ha visto coinvolto il giornalista Kevin D. Williamson, assunto e poi licenziato dall’Atlantic nel giro di tre giorni... per colpa di Twitter!

La vicenda è stata riportata sul Foglio da Micol Flammini, che apre l’articolo con la parte finale dell’articolo redatto dallo stesso Williamson, e pubblicato sul Wall Street Journal, per dare un quadro alla vicenda che si è consumata tra il 2 e il 5 di aprile. Scrive il giornalista: «Dove appaiano i miei scritti non è davvero importante, non è una domanda rilevante. Quello che conta è come il tribalismo alimentato dalla rabbia dei social media, specialmente Twitter, abbia infettato le pagine degli editoriali e, in parte, il resto del giornalismo. Twitter si basa sull’offerta di marchi di affiliazione o emarginazione. La sinistra urla Razzisti e la destra urla Fake news. Non c’è molto che io possa fare in proposito se non trattare i social media con il basso riguardo che meritano. Ma quando si tratta di cosa appare nei nostri giornali o riviste, le vecchie regole dovrebbero ancora contare: lavorare, fare domande, dare ai lettori una ragione per ritenere che ciò che viene pubblicato abbia qualche fondamento di onestà intellettuale».

La questione centrale della vicenda infatti è che Williamson non è stato attaccato per il suo primo pezzo pubblicato sull’Atlantic il 2 di aprile, bensì per una frase pubblicata su Twitter anni addietro, e inerente l’aborto – che per lui «non è come buttare la spazzatura, o fare una frode finanziaria , o guidare a 57 miglia all’ora in un posto dove il limite è 55. Se non è un omicidio, allora non è moralmente più significativo del farsi togliere un dente. Se l’aborto non è un omicidio, allora non ci sono nemmeno reali argomenti per proibirlo. Ma se è omicidio, dobbiamo discutere più seriamente su cosa potremmo fare per mettervi fine» – e la pena capitale. Un tweet non molto liberal per i canoni di pensiero odierno, che evidente non è piaciuto al MiniVer del Grande Fratello (il Ministero della Verità...).

A questo va poi aggiunto il fatto che i giornalisti suoi colleghi hanno rincarato la dose riportando frasi estrapolate dal contesto, di vecchi pezzi da lui scritti. È la fine del giornalismo: nessuna traccia delle famose 5 W, nessuna intervista al soggetto interessato, ma un semplice copia-incolla asservito al politically correct. Ed ecco quindi un altro punto fondamentale dell’intera vicenda, riassunto dallo stesso Williamson: «Nessuno è davvero interessato alle mie opinioni sull’aborto e sulla pena di morte – io non sono un nome familiare. Chiunque fosse stato davvero interessato alle mie idee avrebbe fatto quello che i giornalisti fanno: avrebbe chiesto». Tuttavia, chiosa il giornalista, «Senza un giornalismo credibile, tutto quello che abbiamo è la folla di Twitter, che è un dio geloso. Geloso e anche un po’ stupido».

Redazione

Fonte: Il Foglio

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