24/12/2016

Uomo tra “indipendenza” e “dipendenza”: cartolina di Natale

L’uomo di oggi è molto volto all’indipendenza, ma il Natale ci richiama al fatto che siamo profondamente dipendenti.

Una dipendenza che non è un vincolo, bensì un ancora di salvezza che ci permette di essere veramente umani e... liberi!

Indipendenza (autodeterminazione)

La radice profonda dell’Illuminismo, ma potremo più estesamente dire della modernità, è antropologica. Essa consta di una visione dell’uomo che fa dell’indipendenza la caratteristica peculiare dell’umano.

L’uomo si è fatto adulto – proclama Kant nella sua Risposta alla domanda che cos’è l’illuminismo -, essendosi emancipato da quello stato di minorità intellettuale, morale e spirituale, che doveva alla mancanza di coraggio, prima ancora che di sapere. L’uomo è divenuto padrone di sé e degli atti che conseguono alle proprie scelte. Non ha più bisogno di tutori, guide, autorità né sopporta più restrizioni e limitazioni. Bandisce, di principio, ogni forma di dipendenza che ricordi le condizioni dell’infanzia bisognosa di assistenza, cure e attenzioni.

Tale acquisizione è determinante ai fini della definizione, tanto di una teoria della conoscenza, quanto di un’etica. L’uomo è proclamato autonomo, tanto sul piano della comprensione, quanto sul piano della decisione. Pertanto, può dire «Io voglio», esattamente come può dire «Io penso».

Sottostà a questa visione quella che J. Habermas ha definito “struttura dell’autorelazione”. Come la conoscenza in prima persona, che nasce dalla riflessione del soggetto conoscente su se stesso (il Cogito ergo sum di Cartesio), risulta decisiva a livello teoretico, così la scelta fatta in autonomia, che nasce da una relazione autentica del soggetto con se stesso, lo è a livello morale. L’una e l’altra si diramano da quella stessa opzione fondamentale.

Ma l’indipendenza dell’uomo, affermata in modo assoluto, esclude la relazione con gli altri come essenziale. Questa, laddove si pone, si aggiunge come epifenomeno dell’amore di sé (Rousseau, Emilio), che non intacca in nessun modo l’autarchia del soggetto. L’uomo adulto dice: «Sono mio» e «Mi appartengo» e, proprio perché si appartiene, l’unica norma che riconosce attiene alla sua coscienza, pensata come autonormante ed autofondantesi.

L’etica del bene oggettivo viene soppiantata, quindi, da quella dell’autenticità.

Autenticità significa che ciascuno ha la propria misura di essere uomo in se stesso. Non deve adattare la sua vita alle richieste della conformità esteriore, sia perché questa costituirebbe un vincolo esterno, sia perché non potrebbe trovare il modello su cui regolarla fuori di sé.

Ma questa antropologia dell’indipendenza, nei suoi risvolti ideologici, rivela i tratti di un sottile e malcelato egoismo. Perché l’uomo adulto, l’uomo senza minorità, che non è stato mai piccolo o che ha dimenticato di esserlo stato, è anche quello che ha smarrito la premura dietro l’accortezza, la tenerezza dietro la supponenza, che ripiegandosi su di sé ha perso l’attitudine a rivolgersi, a incontrare l’altro nel suo volto. L’autarchia del soggetto figlia una libertà senza responsabilità, un’indipendenza indifferente, che, alla fine, s’involve in una forma angustiante di autoreclusione nel proprio io.

Talché l’affermazione di un umanesimo autocentrato non porta al riconoscimento dell’altro uomo, dell’uomo oltre il preconcetto, oltre l’immagine che ce ne si può fare. Peggio ancora, il soggetto, che ha reclamato la propria libertà, non ha riconosciuto, poi, quella dell’altro, cosicché le ideologie dell’indipendenza si sono trasformate in altrettante forme di oppressione, sopraffazione e violenza.

…e dipendenza

Il presente post-ideologico, il nostro presente, indica, prima ancora del venir meno di una visione del mondo e della storia (quella, per l’appunto, ideologica), il venir meno di una visione dell’uomo. Più precisamente respinge la violenza sottesa alla presunzione della ragione, quella nemmeno tanto sottile arroganza che essa aveva nell’autoproclamarsi adulta, in funzione di un’apertura verso il diverso e il differente. Ma il presente post-ideologico pare non andare al di là di un relativismo generale e generalizzato, offerto come una sorta di premessa necessaria di ogni discorso. Ha senz’altro il merito di denunciare gli inganni e le mistificazioni ideologiche, ma sembra rimanere fermo al negativo, statico in una posizione altrettanto assoluta e totale come quella delle ideologie contro cui intende reagire.

L’indipendenza, o come si preferisce dire oggi l’autodeterminazione, è intesa in un’accezione spiccatamente individualistica. Attiene alle decisioni che l’individuo è chiamato a prendere in un ambito che va dalle scelte fondamentali sulla vita e sulla morte a quelle sulla relazione con altri.

Ma questa indipendenza affermata in modo unilaterale si dimostra inadeguata nel momento in cui si va a considerare una figura fondamentale dell’umano, la relazione madre-concepito. La risposta che gli illuministi di oggi danno è che la donna deve poter disporre di sé. E, difatti, lo slogan pro-abortista degli anni ’70 era: «Io sono mia». Ma questa rivendicazione, nel momento in cui si considera che la libertà della donna di decidere di sé si va a sovrapporre al diritto alla vita del nascituro, alla sua ancora informe determinazione a vivere, appare per lo meno impropria.

Scrive Ratzinger: «Ma la donna nell’aborto decide propriamente di se stessa? Non decide, in realtà, di qualcun altro – del fatto che ad un altro non debba essere concessa nessuna libertà, che a lui lo spazio della libertà – la vita – debba essere tolto, perché entra in concorrenza con la sua propria libertà?». Qui «l’essere di un’altra persona umana è così strettamente intessuto con l’essere di questa persona, la madre, che per il momento può sussistere assolutamente solo nella sua correlazione corporea con la madre, in un’unità fisica con lei, che tuttavia non elimina il suo essere altro e non permette di porre in discussione il suo essere se stesso» (La via della fede).

Da una parte abbiamo l’indipendenza rivendicata, dall’altra la più inerme e totale dipendenza. Ma esse sono così inestricabilmente intrecciate che veramente, non solo non sarebbe giusto dividerle, ma non sarebbe nemmeno possibile. L’una sarà del tutto sospesa a quella dell’altra, ma anche quest’ultima non ne uscirà indenne, perché non si potrà tagliare di netto quel legame, di cui ella resta, comunque, infinitamente responsabile.

In questa figura fondamentale della madre e del bambino riconosciamo i tratti ultimi dell’umanità in un senso che è universale e personale assieme, generale, ma estremamente concreto e particolare. Riconosciamo altresì il significato forse più profondo del Natale, in cui si gioca – come amava dire Kierkegaard – la verità del cristianesimo.

Ed è questa la nostra cartolina di Natale.

Clemente Sparaco


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