17/10/2016

Utero in affitto – Donne affittate e bimbi prodotti in serie

Ecco un assaggio di cosa sia l’utero in affitto, nella testimonianza di una donna indiana, «[...] Sharmila Mackwan, 31 anni, vedova e madre di due bambini di 9 e 12 anni. Suo marito era un alcolista ed è morto prima che lei desse alla luce il loro secondo figlio. Alla morte dell’uomo, racconta, ‘la sua famiglia mi ha buttata fuori di casa e non avevo nessun altro a cui rivolgermi’. Così ha scelto di diventare madre surrogata per conto di un’altra coppia e ora è in attesa di due gemelli. Per farlo, come da contratto, ha lasciato i suoi figli in orfanotrofio, dove rimarranno per tutta la gravidanza. Lei, infatti, deve risiedere in una struttura dedicata, situata vicino alla clinica dove partorità, insieme a decine di surrogate come lei».

Una donna sola, costretta a vendere il suo corpo e la sua libertà, obbligata ad abbandonare i suoi figli, che partorirà un bambino che le verrà subito strappato dal petto... E bambini che vivono tutto questo da vittime, dirette o indirette, dell’egoismo degli adulti.

Leggendo questo spaccato di vita vissuta su La Verità (11.10.2016, p. 17), in un articolo a firma di Giulia Mazza, si stringe il cuore.

La storia di Sharmila, come già quello della compianta Elisa Gomez, mostrano la brutalità dell’utero in affitto: una pratica che fa a pugni con il cuore, con la ragione e con la concezione della dignità di ogni singolo essere umano che nel 2016 dovrebbe (purtroppo l’uso del condizionale è d’obbligo) essere un dato acquisito.

L’industria della surrogazione è presente in India da diversi anni e che porta un giro d’affari di due miliardi di dollari all’anno (Conferedation of indian industry, 2012): basti sapere che sono oltre 3.000 le cliniche nel Paese e 25.000 i bambini che vengono resi oggetto di commercio ogni anno.

Forse la situazione in India è così critica per via del fatto che un bimbo comprato in questo Paese costa un quarto (tra i 24.500 e i 38.500 dollari) rispetto a un piccolino comprato negli Stati Uniti (circa 150.000 dollari). E il Governo ha infatti cercato diverse volte di regolamentare l’utero in affitto: prima proibendo l’accesso alle coppie omosessuali e ai single, poi alle coppie straniere, infine con la presentazione a fine agosto del Surrogacy Regulation Bill 2016 che sarà discusso nelle sedi del potere tra novembre e dicembre. Il ddl mette dei limiti molto stretti: potranno accedere alla pratica solo coppie etero indiane, sposate da almeno cinque anni e in possesso di un certificato di sterilità e la donna surrogata dovrà essere loro parente e avere già un figlio naturale.

L’India, Paese pioniere, si sta dunque muovendo per porre degli argini all’abominio dell’utero in affitto. Anche se, è necessario dirlo, la soluzione che nessuno ha prospettato ma che si presenta come la più ragionevole è una, la più facile: proibire del tutto questa moderna forma di schiavitù. In ogni caso, questo parziale dietrofront indiano dovrebbe far riflettere i paladini della libertà e del progresso ad ogni costo... sempre, ovviamente, che riescano a vedere oltre i soldi che tappano loro gli occhi.

Intanto, in Italia, ProVita Onlus ha lanciato una petizione per dire, a livello mondiale, #STOPuteroinaffitto: le donne e i bambini non sono oggetti, sono persone e meritano rispetto.

Teresa Moro

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