17/12/2015

Vita e amore: la storia di Stefano Beraldo

Riceviamo e pubblichiamo questa bellissima storia, che è un vero inno alla vita e all’amore.

Questa è la storia di Stefano Beraldo.

Nel 1998 ha 20 anni, ha finito il militare da un paio di settimane (paracadutista a Pisa). Un ragazzo giovane, bello, grandi occhi azzurri, dinamico, tanti amici, una famiglia che lo ama, una fidanzata. Tutta la vita davanti. La sera del 24 ottobre è a casa sua, guarda in televisione un film divertente. Lui e la sua mamma si fanno un sacco di risate. Sono quasi le 23 e decide di uscire. «Esco un attimo in paese». Ma poi, come spesso capita, i programmi cambiano. C’è una festa a Verbania e, con alcuni amici, decide di andarci. La festa finisce, c’è una ragazza da portare a casa. Un rettilineo. Sono le tre di notte. La macchina va molto veloce e si ribalta. Due ragazzi muoiono sul colpo. Uno è illeso. Stefano, che era seduto dietro, è molto grave ma è vivo.

La vita che Stefano e la sua famiglia avevano conosciuto fino a quel giorno è finita, inizia un capitolo completamente nuovo. La diagnosi è di coma vigile. E quella vita sarebbe durata per 17 anni.

La casa di Stefano è una specie di paradiso. Una bella villetta, immersa nella natura, con una vista meravigliosa sul Lago di Mergozzo. C’è una pace assoluta intorno. Nessun rumore, il traffico è lontano, anche se appena sotto, nel parco, è stato fatto posto per le auto dei bagnanti che frequentano la vicina spiaggia.

Stefano è morto il 19 settembre di quest’anno. Poco tempo dopo il suo funerale, la sua mamma ha voglia di raccontare questi anni. Una storia sicuramente di sofferenza, ma anche di eroismo quotidiano, quello di una famiglia normale che, ad un tratto, si è vista cambiare tutte le carte in tavola e ha dovuto imparare a convivere con questa nuova realtà. Tutto è diverso da prima e sconvolgente. Una sola cosa è chiara immediatamente: Stefano ha bisogno di tutto l’amore che i suoi cari possono dargli. E loro sono lì, per lui. vita_coma

«Erano le sei del mattino – racconta mamma Maria Carla – quando ci è arrivata la telefonata. C’era stato un incidente. È stato subito evidente che si trattava di qualcosa di serio. La prima cosa che ho pensato è stata “meno male che è vivo”. Poi pensi che in qualche modo ce la farà. È così giovane, forte, deve farcela». I medici danno un tempo di due anni. La mamma di Stefano se ne dà cinque. Sono anni difficili, intensi, ma la speranza che Stefano si possa svegliare dà la forza di andare avanti.

Il primo anno è molto duro, con spostamenti da un ospedale all’altro, infezioni che insorgono, cure da fare e da tentare. Sono stati interpellati i migliori luminari. In quel periodo anche un altro ragazzo e una ragazza del Verbano-Cusio-Ossola si trovano nelle stesse condizioni di Stefano per incidenti di diversa natura. Viene fatto venire dall’Austria un importante professore secondo cui c’è qualche possibilità che le cose possano migliorare e sposta il periodo di attesa da uno o due a tre o quattro anni. Per sei mesi Stefano starà al “Centro Comatosi” di Milano. «Stefano e io – prosegue la mamma – abbiamo vissuto per quei sei mesi in un residence. L’idea era che il paziente dovesse sentirsi come a casa. Io ho dovuto lasciare mia figlia di 14 anni a casa con mio marito, che comunque doveva lavorare, e mia mamma. Non è stato facile, ma non c’era altra scelta. Stefano faceva questa fisioterapia mirata tre volte al giorno. Era lo stesso periodo in cui stava nascendo a Bologna la “Casa dei risvegli Luca De Nigris”».

A giugno del 2000 Stefano torna a casa. La famiglia non lo porterà più in ospedale (tranne lo scorso anno per una polmonite). «L’unica cosa che potevamo fare – dice Maria Carla – era fargli sentire il nostro amore, trattarlo con normalità. Nell’estate del 2000 lo abbiamo portato al mare. Abbiamo preso un appartamento in mezzo ai limoni. Era un posto molto bello. Avevamo ovviamente l’aiuto di una badante, e lo abbiamo avuto anche negli anni a venire. Lo portavamo in spiaggia. Un giorno, non lo dimenticherò mai, avevamo seduto Stefano su una sedia sul bagnasciuga in modo che le onde potessero toccarlo. Ci si è avvicinato un signore e ci ha detto: “Sono un medico... complimenti!”».

Gli anni passano. Mamma Carla si era data una scadenza, cinque anni. Cinque anni passano. Stefano è sempre lì con loro, ma non si sveglia. La speranza forse un po’ se ne va, ma la vita continua, perché quella di Stefano, pur con tutte le difficoltà, è vita.

I genitori riescono a realizzare, sicuramente con enormi sacrifici, un appartamento tutto per il loro Stefano. È un appartamento moderno, elegante, ricavato nella villetta dove vivono, comunicante con qualche gradino. Una bella stanza con tutto il necessario per poter fare alzare il figlio dal letto con i macchinari adatti. Stefano è anche un ragazzone di circa un metro e ottanta, bisogna organizzarsi in tutto e per tutto. Un soggiorno accogliente con vista sul lago. Il bagno, molto grande, per poter lavare il figlio entrando comodamente con la carrozzina utilizzata per la doccia. L’ascensore per poterlo portare fuori e una stanza per la badante.

Per mamma Carla è importante sottolineare un fatto: Stefano non è stato allettato per 17 anni. La sua è una diagnosi di coma vigile. Stefano dalla sera dell’incidente non ha più parlato, non ha più fatto nulla di quello che faceva prima. Ma non è stato allettato. La sua giornata iniziava con la colazione (veniva alimentato tramite Peg). Ma se la mamma si faceva il caffè, gliene dava un cucchiaino, per bocca. Così come la frutta cotta, riusciva a deglutirla normalmente e sembrava che ne gradisse il sapore. Poi era il momento della doccia e faceva ginnastica, due volte a settimana venivano fisioterapisti specializzati di una struttura della zona. Aveva una carrozzina elettrica che si alzava e gli permetteva, dopo essere stato legato, di stare in piedi. Un esercizio molto utile per la circolazione. Alle 12 mangiava. Dalle 14 alle 16 pisolino. Per il resto della giornata era fuori dal letto, fino alle 21 quando veniva messo a dormire.

vita_coma«Sono stati 17 anni duri – racconta la mamma – all’inizio c’erano tante persone attorno a noi. Stefano aveva una fidanzata conosciuta in Toscana dove aveva fatto il militare. Per tanti mesi è venuta a trovarlo ogni domenica. Poi il tempo passa, è normale che le persone si allontanino un po’. Non è una situazione con cui è facile approcciarsi, soprattutto se per qualche tempo non hai potuto essere presente. Mi rendo conto di questo. Per noi della famiglia, per me, mio marito, mia figlia e mia mamma, era diverso. Io lo trattavo normalmente. Gli parlavo. Qualche volta lui si voltava dalla mia parte se lo chiamavo per dirgli qualcosa. Avevamo stabilito una comunicazione. Abbiamo anche cercato di avere una vita normale, abbiamo ricominciato ad uscire qualche volta, mio marito ed io. Certo eravamo sempre sul chi va là, sempre con un occhio al telefonino, anche quando andavamo a trovare l’altra figlia e i nostri nipotini».

Ma era possibile capire in qualche modo cosa gli passasse per la mente, se stava bene, se stava male? «Quando stava male si vedeva dal viso. Quando doveva fare della terapie chiudeva gli occhi, non le sopportava più, li riapriva solo quando tutto era finito. È stato un calvario, forse troppo lungo. In questi 17 anni ha avuto tanti problemi di salute. Negli ultimi anni ha avuto anche tante crisi epilettiche, che duravano moltissime ore, ma ha sempre lottato. La sera del 19 settembre, invece, si è lasciato andare. Credo che il suo cammino si fosse concluso. Aveva compiuto il suo tragitto».

Nei giorni prima di morire Stefano non è stato bene, febbre, crisi epilettica, il respiro era affannoso. È stato portato in ospedale e la famiglia ha chiesto che venisse curato, ma senza alcun accanimento. Piano piano si è spento. «L’ho lasciato andare – dice Maria Carla con gli occhi lucidi ma sereni – sapevamo che doveva capitare; è giusto così, ha sofferto tanto. Ora è vicino alla sua nonna, che è morta all’inizio dell’anno, che lo potrà coccolare come faceva prima. Negli ultimi anni mia mamma soffriva di Alzheimer, ma quando stava vicino a Stefano era in grado di accudirlo, sedeva accanto a lui e gli leggeva il libretto della Messa».

Al funerale c’è tutto il paese, e non solo, a salutare Stefano. I vecchi amici, i compagni di scuola, i professori di un tempo, i parenti, i semplici conoscenti. Una folla si è stretta attorno alla famiglia in un immenso abbraccio come a ringraziarli per l’esempio che hanno dato con questi lunghissimi anni di accudimento, di sofferenza, di amore e di speranza.

Flavia Lo Nigro

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