05/08/2018

Forte come la morte: riflessioni su Sergio Marchionne

L’improvvisa morte di Sergio Marchionne è divenuta un caso dagli importanti risvolti giudiziari ed economici. Su di essa indaga anche la Securities and Exchange Commission, l’organo di controllo delle società quotate a WallStreet. Il riserbo dell’amministratore delegato di FCA sul suo stato di salute fino a che punto ha inciso sulla quotazione del titolo? E ancora: ha comportato illeciti da parte dell’azienda, di alcuni azionisti o di investitori?

Il 29 luglio l’Ospedale universitario di Zurigo, presso cui era in cura, aveva diffuso un comunicato per respingere il sospetto di errore medico. Vi si parla di «notizie tendenziose da parte dei media relativamente alla sua cura» e si ricorda che: «il signor Sergio Marchionne […] da oltre un anno si recava a cadenza regolare presso il nostro ospedale al fine di curare una grave malattia. Nonostante il ricorso a tutti i trattamenti offerti dalla medicina più all’avanguardia, il signor Marchionne è purtroppo venuto a mancare».

«Starò via solo pochi giorni»

Nella nostra società, in cui la vita di un vip è fatto pubblico, è come se ci si debba attenere ad un programma di evento. Ciò è tanto più vero quando in gioco ci sono ingenti interessi. Per cui si deve passare dalla rivelazione pubblica della propria malattia al clamore inevitabile delle notizie che filtrano dall’ospedale: indiscrezioni sulle cartelle cliniche e bollettini medici che si susseguono e tengono viva l’attenzione dei followers fra moti di solidarietà e ammirazione (Scomparso all’improvviso di Melania Rizzoli su liberoquotidiano.it del 31 Luglio 2018). E tutto questo è dato in pasto al grande pubblico e alle riviste patinate strappalacrime, mentre nelle cabine di regia della finanza la ridda di azionisti e speculatori studia le mosse per convertire in ricavi la malattia e la morte.

Ma c’è un risvolto che sfugge al sistema. Esso è dato dall’imprevedibilità della malattia e dalla trascendente imponderabilità della morte.

Su questo aspetto si è soffermato Antonio Socci in un articolo sul suo blog apparso il 23 luglio (2 giorni prima della morte di Marchionne), offrendo spunti di riflessioni al di là della cronaca.

Riportando parole di John Elkann: «Sono profondamente addolorato per le condizioni di Sergio. Si tratta di una situazione impensabile fino a poche ore fa, che lascia a tutti quanti un senso di ingiustizia», Socci ha individuato il punto della questione: la morte è impensabile ed ingiusta sempre.

Marchionne semplicemente non si aspettava di morire. La morte è stata improvvisa innanzitutto per lui. Il pensiero dell’imminenza della sua morte forse semplicemente non lo sfiorava. «Starò via solo pochi giorni» – aveva detto ai suoi collaboratori il 27 giugno entrando nella clinica di Zurigo per l’intervento alla spalla destra da cui non si sarebbe più risvegliato. Ed in quelle parole vi è forse qualcosa di rivelativo in un senso che supera le sue stesse intenzioni, perché davvero pochi sono i giorni dell’uomo e iscritti in un disegno che va al di là di lui.

La nostra scienza e la morte

Al confine del non detto, il mistero della nostra morte resta come sospeso su una soglia al di là della quale dei nostri progetti, delle nostre aspettative, delle nostre immaginazioni non ne è più nulla. E, per quanto facciamo o immaginiamo di fare, non potremmo allungare la vita neppure di un tanto.

La morte è l’«oscuro presupposto di ogni vita» – ha scritto il filosofo Franz Rosenzweig, riflettendo la sua esperienza dei campi di trincea della prima guerra mondiale. Tutto quanto é creato è mortale e vive nella paura.

Ma la morte è innanzitutto solitudine.

Scriveva ancora Rosenzweig: «Non c’è solitudine maggiore che negli occhi di un morente e non c’è singolarizzazione più caparbia, più superba di quella si dipinge sul volto irrigidito di un morto».

Ce ne accorgiamo di questa estrema solitudine nel nostro quotidiano soffrire e nel morire delle persone che ci circondano. Restiamo tanto più sbigottiti quando essa colpisce i potenti, le persone di successo, quelli che credevamo immuni dalla malattia del non essere riconosciuti.

Pertanto, non dobbiamo stupirci che anche un uomo grande, e Marchionne lo era, si ritrovi solo rispetto alla morte, impensabilmente ed ingiustamente solo nella sua vulnerabilità.

Questa morte non comprensibile, non pubblicizzabile e per nulla spettacolare incombe ogni giorno. «Quotidie morimur», «Moriamo ogni giorno», scriveva Seneca. Ma oggi, a differenza che nel passato, è relegata nei luoghi preposti al dolore: l’ospedale, il nosocomio, il cimitero… Sottratta allo sguardo pubblico, censurata nel quotidiano, è il convitato di pietra dell’esistenza postmoderna.

I progressi farmacologici e tecnologici hanno prolungato e continuano a prolungare i tempi della morte, cosicché alla mera rassegnazione è subentrata una regolamentazione artificiale della sua durata. Ma malgrado la nostra scienza s’impegni a prolungare la vita forzando il limite naturale, la morte resta, dura, refrattaria, resistente ad ogni trattamento, ammutolente con il suo silenzio i nostri discorsi. La sua indomabilità suona irrisione «di fronte ad una medicina protesa, come tutta la società moderna, verso la categoria di successo, la morte è appunto l’insuccesso, il clamoroso e totale insuccesso» (G. Campanili, Eutanasia e società industriale, in “Rivista di Teologia Morale”, 1982).

A fronte di questa estrema incongruenza emerge l’incapacità di dare senso alla morte, che è poi incapacità di dare senso alla vita. Perché «la mortalità– come ha scritto Hans Jonas – è una caratteristica integrale della vita e non una sua estranea e casuale offesa». Pertanto, il nostro rifiuto di riconoscere i limiti biologici nasce da un colossale fraintendimento, da una caduta di qualità del nostro sapere, più che mai impreparato di fronte alla morte.

 Clemente Sparaco

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