20/06/2018

Università e gender: forse il papà di Udine non aveva tutti i torti

Il professor Jordan Peterson in Canada è considerato un eroe che si batte per la libertà di manifestazione del pensiero, fino al punto di mettere a repentaglio la sua carriera di docente universitario.

LifeSiteNews ne parla di nuovo, a proposito di un suo video (visibile qui, per chi comprende l’inglese) in cui mette in guardia i genitori: i loro figli subiscono indottrinamento ideologico secondo le  «idee mortifere» veicolate dai teorici del gender, anche nelle università.

«Non ve ne rendete conto, ma state finanziando [con le tasse, ndR] persone pericolose», dice nell’introduzione, «stanno indottrinando le giovani menti con una ideologia carica di odio e di risentimento».

Il professore, non credente, che insegna psicologia e ha conseguito un dottorato di ricerca alla McGill University di Montreal, è stato ricercatore presso l’Università di Harvard e insegna all’Università di Toronto dal 1998, definisce una «banda di nichilisti» coloro che «sostengono che  la verità è soggettiva, che le differenze sessuali sono socialmente costruite e che la cultura e la tradizione occidentale è la causa di tutti i problemi del Terzo Mondo».

Accusa gli appartenenti a questa potente lobby di mobbing nei confronti dei colleghi non allineati alla dittatura del pensiero unico e che – come lui – non si adeguano alla neolingua e si rifiutano di usare i nuovi pronomi inventati appositamente per non “discriminare” i transgender.

I giovani radicali degli anni Sessanta e Settanta sono diventati i professori che oggi insegnano anche nelle università. Università dove si può avere la laurea in letteratura inglese senza aver letto Shakespeare, che è da alcuni professori definito con disprezzo un «maschio, bianco, morto»: lo scopo di molti insegnanti non è più quello di trasmettere cultura, ma di fare il lavaggio del cervello ai discenti.

Peterson insiste molto sull’uso delle parole e sul retto significato da attribuire a esse. Evidenzia una “triade empia” di parole chiave: “diversità”, “equità” e “inclusione”.

La diversità va bene se si tratta di diversità di razza e di “genere”. Non va più bene se si tratta di diversità di opinioni. L’equità non si intende più come “pari opportunità”,  ma si pretende uguaglianza dei risultati, anche in situazioni diverse. L’inclusione vuol dire che, matematicamente, vanno assegnate delle “quote” a determinate categorie di individui, in determinati ambiti, a prescindere dalle attitudini e dal merito dei soggetti interessati (v. le nostre “quote rosa”).

Tutti i diritti devono essere considerati secondari rispetto a questi nuovi – distorti – “valori”, ha affermato Peterson. Il diritto alla libertà di parola e di opinione in particolare viene, rispetto a essi, annichilito.

Questi ideologi del nulla, inoltre, ignorano l’unicità di ogni persona: l’individuo è solo un  “esempio” di una certa  razza, sesso o “genere”o, ancor più limitante, è solo l’appartenente a priori alla categoria di  “vittima” (donna, nero, islamico, gay) o “oppressore” (maschio, bianco, cristiano, eterosessuale).

E l’assurda vittimizzazione a priori di determinate categorie giustifica l’uso del potere dispotico dello Stato “etico” (cioè totalitario) e genera costantemente conflitti sociali. Accade quello che voleva  Marx, le cui teorie economiche e politiche hanno causato il fallimento di interi sistemi economici e la morte di centinaia di milioni di persone: come insegnava la scuola di Francoforte, le idee (nichiliste e distruttive) restano le stesse, cambiano solo i protagonisti del conflitto sociale: non più capitalisti e proletari, ma le “vittime” e gli “oppressori” di cui abbiamo detto sopra.

L’esperienza di Peterson riguarda le università nord americane. Ma, a giudicare da ciò che avviene nelle nostre (si veda per esempio qui, o  qui), il Nuovo Continente non è così distante...

Chissà: forse quel papà di Udine che si lamentava del fatto che la figlia fosse stata plagiata da qualcuno, all’università, non aveva tutti i torti.

Francesca Romana Poleggi

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