10/05/2013

Legge 40/2004: breve storia di un martirio giudiziario

Tracciare nel dettaglio l’intera storia giudiziaria della legge 40/2004, disciplinante le tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA ), sarebbe impresa ardua e pressoché infinita, tuttavia, si possono profilare le linee generali delle tappe di ciò che può essere definito un vero e proprio martirio giudiziario, cioè un assalto al corpo ed allo spirito di una delle più discusse leggi degli ultimi anni.

Per sgombrare il campo da ogni sospetto di clericalismo occorre ricordare en passant che la dottrina morale della Chiesa è contraria alla procreazione medicalmente assistita in quanto sostituzione di quella naturale che si struttura all’interno del rapporto sponsale quale momento di co-operazione della creatura con il disegno della creazione divina (come, per esempio tra i tanti, il capitolo 25 della “Humanae vitae” di Paolo VI). Affermato ciò, con la speranza di aver chiarito, seppur in modo sommario, la posizione della Chiesa, occorre esaminare la travagliata vita della legge 40/2004 partendo dal menzionare alcune note pronunce giurisprudenziali che l’hanno avuta ad oggetto. Occorre dunque procedere con ordine.

La ratio legis
La legge 40/2004 è stata varata per porre fine all’anarchia procreativa che era ampiamente diffusa prima della sua approvazione. Le tecniche di PMA che la legge 40/2004 è chiamata a disciplinare sono ritenute, adesso, l’estrema ratio in caso di infertilità o sterilità, come si evince già dal secondo comma dell’articolo 1. La legge 40/2004, tuttavia, non intende sacrificare agli altari della tecnica la dignità umana o mercificare l’umanità degli esseri umani che vi sono coinvolti, ed ecco perché, quindi, suggella il riconoscimento di tutti i soggetti coinvolti, cioè oltre la donna, anche il marito/convivente, e, soprattutto, il concepito.

Tenendo presente questa tutela, soprattutto quella in riferimento al concepito, quale elemento cardine dello spirito di tutta la legge, il legislatore ha posto alcuni divieti, tra i quali il divieto di creare più di tre embrioni e, nel caso, di impiantarli tutti e tre; il divieto della fecondazione eterologa, cioè utilizzando gameti provenienti da soggetti esterni alla coppia; il divieto di utilizzo degli embrioni ai fini sperimentali; il divieto di selezione eugenetica degli embrioni malati; il divieto di crioconservare gli embrioni se non per il caso della temporanea impossibilità di impiantarli (per esempio per un evento transeunte che riguarda la salute della madre); il divieto di procedere a clonazione; il divieto di creare ibridi e chimere tramite l’incrocio di gameti di specie diversa.

Tali previsioni costituiscono i bastioni principali del fortilizio eretto e posto a tutela del concepito dalla legge 40/2004, diuturnamente e pressantemente assediato da alcune lobbies che ricaverebbero fruttuosi guadagni dalla caduta di alcuni dei predetti divieti, da correnti minoritarie, ma ideologicamente agguerrite che portano avanti l’idea che il concepito non debba avere alcuna tutela in quanto non umano o comunque non persona, da giudici e corti inferiori e superiori, nazionali ed europee più propense ad assopirsi pigramente sulle prospettazioni delle parti piuttosto che ad esercitare un duro e faticoso lavoro di ermeneutica giuridica e filosofica, sacrificando alle ragioni dell’ideologia le ragioni del diritto e della giustizia.

Ovviamente non tutto è bene. Come Dante fu ammonito da Minosse affinché non l’ingannasse “l’ampiezza de l’intrare”, cioè la facilità della via, poiché la via del peccato è sempre quella più facile, così non bisogna lasciarsi ingannare da quelli che sembrano gli aspetti positivi di una simile legge, soprattutto per chi pensa che il concepito debba essere tutelato. Ad essere tirata in ballo, infatti, è la dimensione filosofica ed antropologica di fondo. Se le tecniche di PMA vengono utilizzate come strumento terapeutico per sopperire ad una patologia, i problemi gius-filosofici sembrano dissiparsi per buona parte, lasciando semmai spazio a quelli inerenti alla teologia in genere ed quella morale in particolare; se, invece, le stesse tecniche di PMA, al netto della disciplina legale di riferimento, vengono intese quale momento di esercizio di un diritto, cioè il presunto diritto al figlio, o quale momento di autogoverno del proprio corpo, o quale occasione per il soddisfacimento di un desiderio (di genitorialità), la faccenda si complica non poco, soprattutto dal punto di vista biogiuridico.

Le difficoltà aumentano se si mette in relazione la legge 40/2004 con la legge 194/1978 disciplinante la interruzione volontaria di gravidanza; la tematica è così vasta e complessa da richiedere una trattazione a sè stante, ma almeno una riflessione può essere brevemente espressa. Sebbene, infatti, le due leggi possano apparire ispirate da una logica opposta, procurare la maternità la prima ed evitare la maternità la seconda, ed in parte è vero che si fondano su valori diversi (si pensi per esempio al ruolo del padre, contemplato dalla prima, non citato dalla seconda), è anche pur vero che, a ben guardare, sono entrambe due sfumature differenti di uno stesso colore, cioè del grigiore che distingue il connubio tra non-cognitivismo etico e relativismo giuridico così di moda oggi. Si pensi a ciò che scrivono due esponenti di spicco del relativismo giuridico odierno, Natalino Irti e Stefano Rodotà, rispettivamente il primo sui valori: «Il valore giuridico del mondo dipende dal nostro punto di vista e varia col variare di esso»; e il secondo sulla disponibilità del corpo: «Le modificazioni possono essere ritenute necessarie dall’interessato per “stare bene con se stesso”, sì che diventa legittimo attrarre questo profilo nell’ambito della libera costruzione della personalità».

Insomma, viste nel loro insieme, senza scandagliare nelle profondità normative, le due leggi, quella sulla PMA e quella sulla IVG, appaiono per ciò che sono, cioè le due facce di una stessa medaglia, ovvero della prospettiva che esaltando le capacità fabbrili dell’uomo legittimano ogni intervento a mezzo delle potenzialità ogni giorno più accresciute offerte dalla scienza e dalla tecnica. Entrambe le leggi, insomma, sono la traduzione formale in termini legali di una specifica visione antropologica che vede nell’uomo e nell’uso della tecnica che esso mette in essere, l’unica istanza superiore riconoscibile, escludente ogni altra dimensione, anche e soprattutto quella etica. Non è dunque un caso che Aldo Schiavone ritenga che «la tecnica in sé, non è fredda né calda», assegnando alla tecnica una neutralità etica che ovviamente essa non possiede, ma la de-assiologizzazione della quale è la spia più palese del passaggio dalla tecnica al tecnicismo, cioè della sublimazione ideologica dell’uso della tecnica medesima. Tralasciando queste ulteriori complicazioni, in questa sede non adeguatamente risolvibili, occorre tener presente che la legge 40/2004, sebbene condivida con la legge 194/1978, una identità della dimensione antropologica di riferimento, è anche pur vero che da essa nel concreto dei suoi dettami normativi, si differenzia, poiché, come già accennato, riconosce e tutela i diritti del nascituro con una specifica panoplia giuridica costituita dai citati divieti. Contro queste difese si scaglia da anni la giurisprudenza che pezzo dopo pezzo sembra aver proceduto ad un vero e proprio smantellamento della legge 40/2004 ignorandone o disconoscendone, si spera almeno in buona fede, la ratio che la sottende.

Le decisioni della Giurisprudenza
Nell’arco degli anni le pronunce sono state circa una ventina di cui solo tre sostanzialmente “favorevoli” alla legge 40/2004 e tutte le altre ad essa “contrarie”. Ovviamente, la distinzione tra “pro” e “contro” legge 40/2004 è una elementare forma di semplificazione che tuttavia, vista la limitazione di spazio e tempo per chi scrive e per chi legge, si rende necessaria per comprendere le travagliate vicende che riguardano la suddetta legge in tema di PMA. La prima pronuncia che ha visto coinvolta la legge 40/2004 è stata quella del Tribunale di Catania nel maggio del 2004 con cui si è respinta la richiesta di una coppia portatrice di betatalassemia che intendeva impiantare soltanto gli embrioni risultanti negativi ai test sulla patologia anzidetta, adducendo l’applicazione analogica della legge 194/1978 con l’idea che sarebbe stato più giusto evitare di impiantare gli embrioni malati piuttosto che impiantarli e poi ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza.
Il Giudice di Catania ha ragionevolmente rigettato tale richiesta rinvenendo un errore logico-giuridico: la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza non poteva essere applicata al caso di specie, in quanto il presupposto affinché si applichi la 194/1978 è che una gravidanza vi sia, circostanza non presente nel caso di embrioni non ancora impiantati (sarebbe come applicare le pene per l’omicidio in assenza di omicidio o quelle sul testamento in totale assenza della volontà testamentaria). Il Tribunale di Catania riteneva inoltre che la eventuale applicazione della 194/1978 così come richiesta dai ricorrenti, non fosse corretta, in quanto la coppia richiedeva qualcosa che l’ordinamento non contempla, anzi vieta, cioè l’aborto eugenetico.

Sempre nel 2004 il Tribunale di Cagliari, invece, in senso totalmente opposto rispetto al Tribunale di Catania, ha ammesso l’interruzione di gravidanza, sebbene dopo l’inizio della stessa e non in vista di selezioni eugenetiche, legittimata dal trovarsi in presenza di gravidanza plurima con supposti rischi per la madre e i nascituri. Si giunge infine alla ordinanza della Corte Costituzionale n. 369 del novembre del 2006 con cui la Corte Costituzionale respinge i dubbi di legittimità costituzionale sull’art. 13 della legge 40/2004 (divieto di sperimentazione sugli embrioni) sollevati dal Tribunale di Cagliari. Con queste tre statuizioni, si può affermare in un certo senso, si chiude il ciclo di interventi giurisprudenziali “favorevoli” alla legge 40/2004; da questo momento in poi, sostanzialmente tutte le successive decisioni delle Corti italiane, di merito e di legittimità, hanno proceduto allo smantellamento della legge in questione.

Nel 2007 il Tribunale di Cagliari e il Tribunale di Firenze hanno ritenuto ammissibile la diagnosi genetica pre-impianto ( DGP ), così come il Tribunale di Bologna nel 2009, il Tribunale di Salerno per ben due volte nel 2010. Nel 2008 il Tar del Lazio annulla per eccesso di potere le linee guida ministeriali che ricalcano quanto sancisce la legge 40/2004 nel punto in cui prevede che l’indagine sugli embrioni possa essere soltanto di tipo osservazionale e non selettivo; ancora nel 2008 il Tribunale di Firenze, per due volte, solleva dubbi di legittimità costituzionale sull’articolo 14 della legge 40/2004 (divieto di crioconservazione e soppressione degli embrioni ). Nel 2009 la Corte Costituzionale, con la storica sentenza n. 151, dichiara l’illegittimità costituzionale del limite massimo di tre embrioni producibili e il conseguente obbligo di impianto di tutti quelli prodotti. Nel 2010 ancora la Corte Costituzionale si pronuncia e conferma quanto disposto con la predetta sentenza del 2009. Nel 2010 il Tribunale di Firenze e di Catania, e nel 2011 quello di Milano, sollevano dubbi di legittimità costituzionale circa il divieto posto dalle legge 40/2004 di procedere alla fecondazione eterologa. Nel 2012 la Corte Costituzionale, riunisce i tre predetti procedimenti, e pur non esprimendosi in modo definitivo sulla fecondazione eterologa, lascia aperta una via affinché in futuro le Corti possano meglio formulare le loro decisioni in senso favorevole alla fecondazione eterologa, circostanza già venuta in essere con l’ordinanza del Tribunale di Milano del marzo 2013 con cui le toghe lombarde ritengono che il suddetto divieto di fecondazione eterologa sia contrario alla libertà genitoriale della coppia che desidera farvi ricorso. Sempre nel 2012, infine, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo stabilisce che il divieto di diagnosi genetica preimpianto ( DGP ) contemplato dalla legge 40/2004 sia contrario al diritto al rispetto della vita familiare e al principio di uguaglianza contemplati dagli articoli 8 e 14 della Carta europea dei diritti dell’uomo.

Brevi osservazioni critiche
Se riassumere in breve il problema e le decisioni delle toghe sul problema è impresa ardua, condensare le critiche alle citate pronunce giurisprudenziali, è praticamente impossibile; tuttavia delle considerazioni possono essere proposte più come punti di partenza che di arrivo per continuare una riflessione sul tema.

In primo luogo: balza immediatamente agli occhi la contraddizione per cui nel 2004 il Tribunale di Cagliari ritenne di dover autorizzare una IVG a seguito di PMA in quanto in presenza di gravidanza plurima a seguito dell’impianto degli embrioni, mentre nel 2009 la Corte Costituzionale ritiene lesivo della libertà procreativa delle coppie il limite massimo di tre embrioni, favorendo dunque una produzione embrionaria superiore a detto limite. La Corte Costituzionale, ignorando del tutto il cosiddetto “stato dell’arte”, cioè la situazione scientifica al momento della sua decisione, sembra essere incorsa in un gravissimo caso di errore giudiziario. Si ritiene comunemente, infatti, all’un tempo da un lato che la limitazione degli embrioni al numero di tre, costituisca una violazione della libertà riproduttiva perché limita la probabilità della gravidanza, mentre da un altro lato che l’impianto di tre embrioni possa costituire un pericolo per la donna. Le corti sembrano essersi piegate a soluzioni molto ideologiche e poco scientifiche e ancor meno giuridico-filosofiche, ignorando, sul punto del numero degli embrioni opportuni da impiantare, quanto segue. Mentre in Italia la legge 40/2004 veniva sottoposta a referendum con la speranza che venisse abrogato il limite di tre embrioni, giudicato troppo basso, limite poi travolto dalla dichiarazione di incostituzionalità operato dalla Corte Costituzionale con la citata sentenza 151/2009, all’estero gli studi scientifici indicavano la strada giusta percorsa dalla legge 40/2004.

Gli studi sono numerosi e non si possono riportare tutti, ma a livello esemplificativo si ricordino quelli condotti, tra i tanti, in Svezia ed in Finlandia che hanno condotto alla riduzione del numero degli embrioni da impiantare fino al numero di uno solo, essendo questo il caso migliore per conciliare la sicurezza della donna con una probabilità di inizio della gravidanza non inferiore al caso di trasferimento multi-embrionario. Questo il link dello studio apparso in tal senso già nel 2005 sulla rivista “Human Reproduction” e questo quello dello studio apparso sulla autorevole rivista “Lancet” in cui si chiarisce che non sempre l’impianto di più embrioni sia la scelta ottimale sia ai fini della gravidanza, sia ai fini della salute della donna, soprattutto in relazione all’età della donna che dovrà ricevere l’impianto. Si consideri inoltre lo studio pubblicato già nel 2004, cioè mentre la fazione referendaria italiana cercava di convincere l’opinione pubblica sulla presunta ingiustizia del limite di tre embrioni come limite alla maternità, sulla prestigiosa ed autorevole rivista “The New England Journal of Medicine” sui rischi derivanti dall’impianto di più embrioni. Tutto ciò chiarito, occorre però evidenziare l’insufficienza etica e giuridica di una tale prospettiva, poiché, prescindendo dalle decisioni dei giudici e dalle ragioni scientifiche che ad esse si oppongono, non può rilevarsi che un tal modo di procedere è metodologicamente errato in quanto inspirato dal criterio della quantità e non da quello della qualità.

In altri termini: nonostante i risultati scientifici smentiscano radicalmente l’opinione delle Corti italiane, nostro malgrado proprio a cominciare dalla Corte Costituzionale, trattandosi di embrioni, non ci si può semplicemente affidar al calcolo numerico, cioè occorre ricordare che ciascun embrione deve essere trattato per ciò che è, ovvero una individualità già geneticamente determinata e non una semplice biglia di un pallottoliere uguale a quella che la precede ed a quella che la segue, cioè sostituibile. Come ha giustamente notato Vladimir Soloviev «le verità matematiche hanno un significato universale, ma riescono indifferenti dal punto di vista morale»; ed essendo il problema dei diritti dell’embrione, un tema tipicamente giuridico e morale, non può essere ricondotto alla mera e amorale ( non immorale ) dimensione matematica che ne fa un numero, un qualcosa, producibile e riproducibile in serie industriale, invece che un qualcuno, unico ed irripetibile. La tematica potrebbe essere ancora affrontata a lungo e chiarita meglio, ma non certo in questa sede.

In secondo luogo: pur non potendo affrontare tutti i problemi relativi all’intera disciplina della legge 40/2004, non si può evitare di accennare brevemente alla fecondazione eterologa, vietata dalla legge ed ammessa, invece, da chi la legge è chiamato ad applicare. Secondo l’opinione dominante della giurisprudenza la fecondazione eterologa garantirebbe la libertà della coppia, dimenticando i giudici che, in effetti, è proprio l’opposto per i motivi che seguono. La fecondazione eterologa lungi dal tutelare la coppia, in effetti la sgretola e ne sancisce la fine, in quanto inserisce un terzo, o perfino un quarto (cioè i donatori di gameti) soggetto all’interno della coppia medesima, come dimostra questo tra i tanti esempi citabili. Inoltre la coppia, non è una entità a sé stante, fuori dal mondo, parallela alla realtà, per cui si dovrebbe contemplare la tutela anche degli eventuali figli nati, con il metodo eterologo, che si ritroverebbero ad avere più genitori: genetici, biologici, sociali, legali.

La genitorialità che alcuni ritengono essere tutelata dalla fecondazione eterologa, proprio da quest’ultima viene definitivamente distrutta poiché viene ad essere scissa e divisa, adespotizzata si direbbe in termini giuridici, in capo ad una moltitudine di soggetti diversi che potrebbero tutti reclamare il diritto di essere genitori, oppure rifiutare tutti un tale diritto dando vita, paradossalmente, ad un orfano in provetta, caso, quest’ultimo, meno infrequente di quanto possa apparire, a cominciare proprio dal primo del 1997. Aggiungasi inoltre che qualora la fecondazione eterologa venisse ad incrociarsi con la maternità surrogata, i problemi non potrebbero che aumentare, poiché si dovrebbe rispondere al quesito etico sul ruolo della madre gestazionale e sul rapporto di questa con il nascituro, sui diritti di questo verso chi ha condotto la gravidanza e sugli eventuali doveri della madre gestazionale nei confronti del partorito (oltre ad una serie di quesiti specificamente tecnico-giuridici: che fare se la madre gestazionale non volesse poi consegnare il nascituro come previsto per contratto? Potrebbe pensarsi ad una esecuzione coattiva? L’utero prestato per simili procedure, dovrebbe essere gratuitamente offerto o a pagamento? E perché sì o no in un senso e perché sì o no nell’altro?).

Il pensiero post-femminista, oggi grande sostenitore della liberalizzazione della fecondazione eterologa, non sembra in grado di cogliere la portata anti-femminista di un simile metodo procreativo, anche se, pare, vi sia qualche coscienza più illuminata che si è già accorta di una simile contraddizione. Miriam Mafai, infatti, scriveva già nel 1997 sui rischi etici, sociali e giuridici di una simile tecnica: «Stiamo entrando nel grande circuito della mercificazione della gravidanza con tutti i cambiamenti giuridici, etici e psicologici che da questo possono derivare. Avremo tra breve anche noi come in America degli album tra cui scegliere le nostre incubatrici umane. Chi di noi non vorrà portare in grembo il suo bambino potrà, pagando, depositare il suo embrione altrove e tornare a riprenderlo dopo nove mesi. Si rompe così definitivamente un legame naturale, unico, nutrito di sangue e di sogni tra la madre e quello che una volta si chiamava “il frutto del ventre tuo” […]. Non tutto ciò che è possibile allo scienziato può essere considerato lecito».

E’ evidente quindi che i Tribunali, praticamente e preoccupantemente sordi alla voce del diritto, ma ammaliati dalle sirene dell’ideologia, si adoperino per indirizzare e dirigere l’opinione pubblica pur contro le risultanze scientifiche, etiche e giuridiche, abbandonandosi a quell’attivismo giudiziario descritto e condannato dal noto ed autorevole Professore di Diritto Costituzionale dell’Università di Yale, Robert Bork, per il quale «l’attivismo giudiziario è il risultato dello schieramento dei giudici da un’unica parte della guerra culturale – una realtà evidente in tutte le nazioni occidentali anche se alcuni ne negano l’esistenza – combattuta tra la sinistra culturale o progressista e la grande massa dei cittadini che, se lasciata libera di agire, tende ad essere tradizionalista. In definitiva, le corti stanno applicando il programma della sinistra culturale».

di Aldo Vitale – ricercatore in filosofia e storia del diritto

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