28/02/2014

Via libera per sentenza alla maternità surrogata

Il tribunale di Milano assolve coppia che aveva “comrato” un figlio a Kiev

Un’altra sentenza arbitraria in fatto di maternità surrogata, il procedimento per il quale un ovulo fecondato in vitro viene impiantato per una gestazione in affitto nell’utero di un’altra donna. La quale, dietro un “rimborso spese” (in realtà una retribuzione vera e propria), accetta di portare avanti la gravidanza sapendo che il frutto del parto non sarà mai suo figlio. La pratica in Italia è categoricamente vietata dalla legge 40 del 2004. Ma la sentenza emessa dalla quinta sezione penale del tribunale di Milano il 15 ottobre 2013 (e appena pubblicata), ultima di una sempre più nutrita serie, assolve chi questo divieto lo ha aggirato, nella fattispecie ricorrendo al cosiddetto “utero in affitto” in una clinica dell’Ucraina, Paese nel quale la pratica è consentita. Allo stesso tempo però la pronuncia invade arbitrariamente il campo civilistico non toccato dal procedimento.
Analizzando la sentenza, balzano subito all’occhio i tre nuclei tematici di cui si compone, solo il primo dei quali può ritenersi tecnicamente a tema con il giudizio instaurato, mentre gli altri due sembrano ininfluenti ai fini della decisione e intrisi di ideologia.
I fatti. Una coppia milanese che non riesce ad avere figli (il Tribunale parla di «difficoltà a realizzare il diritto alla genitorialità») si rivolge alla clinica Biotexcom di Kiev perché proceda alla maternità surrogata.
Dopo 9 mesi e 30mila euro tra onorari della struttura sanitaria e “rimborso” alla gestante ucraina, il bimbo nasce. Così, secondo la legge ucraina, viene registrato all’anagrafe di Kiev come figlio della coppia milanese. È allora che i due italiani si presentano alla nostra ambasciata chiedendo che l’atto di nascita sia trasmesso all’ufficiale di stato civile di Milano perché lo trascriva nella relativa anagrafe. I funzionari subodorano si tratti di una caso di maternità surrogata, un fatto non più infrequente in Ucraina. E dalla rappresentanza diplomatica parte una comunicazione all’autorità giudiziaria italiana, che indaga la coppia per il reato di alterazione di stato civile del minore. Nonostante ciò, l’ufficiale di stato civile trascrive l’atto. Di qui si giunge al processo e alla sentenza, chiamata a decidere circa la commissione o meno del reato di alterazione di stato da parte dei “genitori”. Il tribunale dunque assolve i due sulla scorta del fatto che «l’atto di nascita – recita il capo 3 della sentenza – è stato formato correttamente, in Ucraina, nel rispetto del luogo ove il bambino è nato».
La seconda parte del pronunciamento della corte costituisce una difesa dell’ufficiale di stato civile milanese che ha trascritto l’atto di nascita: un fatto del tutto irrilevante nel procedimento penale, preordinato unicamente a tentare di rendere lecito in sede giurisprudenziale una pratica – l’utero in affitto – vietata dalla legge. Il tribunale sa bene che se un atto formatosi all’estero è contrario all’ordine pubblico italiano – e cioè a una serie di principi da ritenersi inderogabili – non può essere trascritto. Così, si affanna ad affermare che «questa forma di procreazione assistita è consentita dalla maggior parte dei Paesi che aderiscono all’Unione europea». E, per quanto riguarda l’Italia, che «il concetto di genitorialità» si fonda ormai «sull’assunzione di responsabilità» e non più sull’essere padre e madre naturali. Dunque, concludono i magistrati, quanto avvenuto è compatibile con l’ordine pubblico interno.
Non è così per Andrea Nicolussi, civilista dell’Università Cattolica. Che, citando l’articolo 30 della Costituzione, sottolinea come «la responsabilità genitoriale» sia «conseguenza della procreazione, non della scelta di essere o non essere genitore». E ciò perché «giuridicamente la responsabilità non si assume per scelta, ma in adempimento di un dovere». In merito poi allo scenario internazionale, Nicolussi ribatte che «la maternità surrogata non può dirsi conforme ai diritti fondamentali dell’uomo»: lo studioso pensa al principio di «indisponibilità del corpo, soprattutto se a pagamento».
Ma non solo. Nella sua terza parte, e cioè nell’intero capo 6, la sentenza si abbandona a considerazioni che hanno poco di giuridico e molto di ideologico. Così, la fecondazione eterologa viene definita come «terapia dell’infertilità» ricompresa nel «diritto alla salute». E la famiglia fondata e regolata dal diritto naturale presto si tramuta in «istituto fondato sul libero accordo dei contraenti». Il tutto condito con gli immancabili richiami ai «postulati della laicità dello Stato» e alle «possibilità aperte in favore delle coppie omosessuali». Anch’esse, lascia intendere il tribunale, titolari di un diritto di genitorialità. Nicolussi dissente di nuovo: «La genitorialità è un rapporto, non un diritto individuale. Il rischio di operazioni come queste è di ridurre il figlio a merce, oggetto di contratti. Affitti, compravendite e appalti compresi».

Fonte: Avvenire

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