26/08/2018

Aborto per disabili? No, per noi Mily è «un angelo»

L’aborto può essere una “soluzione”, se il bambino che si porta in grembo presenta una disabilità fisica o mentale? Per molti la risposta è affermativa, perché il bambino (indebitamente identificato con la sua disabilità, anziché  innanzitutto come persona) viene considerato il “problema” da risolvere.

Ipotizziamo, senza alcuna pretesa, che questo ricorso all’aborto cosiddetto “terapeutico” non riveli in primis una rincorsa della perfezione e un’ansia del giudizio altrui, quanto più una paura... la disabilità spaventa perché richiama alla mente il sacrificio, ma soprattutto perché esce dai margini del nostro controllo. Eppure, tante testimonianze ci dicono che essa può anche essere vissuta come una risorsa: come quella del giovane Martín Juez, che ha scritto una lettera a nome della sorella diciassettenne Milagros, che soffre di una ipossia cerebrale sin dalla nascita, in risposta alle affermazioni formulate dall’attrice Catherine Fulop, venezuelana ma naturalizzata argentina, durante un programma in onda su América TV.

L’attrice aveva raccontato di come, desiderosa del terzo figlio, quando le avevano detto che la sua età non più giovane era un fattore di rischio per la salute del bambino, aveva deciso di chiudersi alla vita, pur di non “rischiare”, dicendo che un figlio disabile sarebbe stato solo un peso per la sua famiglia, che peraltro non avrebbe ricevuto aiuti dallo Stato.

A queste affermazioni, Martín ha risposto con una lettera – scritta in un misto tra indignazione e impotenza – che è diventata virale sul web. Scrive, a nome della sorella: «Cara signora Fulop, sicuramente di persona, non potrei dirtelo perché le mie capacità non lo permettono, ma mio fratello mi aiuta a trasmettere le mie emozioni e sentimenti su quello che hai detto ieri e stavo pensando... Sono davvero un problema per me stessa, per la mia famiglia? Le migliaia e migliaia di bambini nati con qualche tipo di disabilità sono un problema?». Prosegue poi: «Non la vedo così e la mia famiglia non mi fa sentire così, quando arrivano a casa mi guardano sorridenti, mi danno un bacio, mi abbracciano [...]».

Per quanto riguarda poi gli aiuti statali, oggettivamente scarsi e da aumentare, non possono essere presi a parametro di giudizio rispetto al valore di una vita: «Sono sicura – afferma Mily per interposta persona – che nessuno Stato o denaro al mondo possa darti la risorsa più importante, che è l’amore di una famiglia, quella risorsa che è carica di solidarietà, rispetto, cura, disinteresse, fraternità e tutto ciò che implica».

Mily non è un problema, anzi, e l’aborto non è una soluzione: «la vita», afferma suo fratello «ci ha premiato con un angelo, che ci insegna ogni giorno qualcosa di nuovo».

Di fronte agli oltre 40.000 like ricevuti dalla lettera, Catherine Fulop si è scusata sul suo profilo social, pur riaffermando di essere favorevole alla legalizzazione dell’aborto (tema molto caldo in Argentina in questo momento).

L’aborto uccide un figlio, uccide una vita magari “imperfetta” (ma chi può dire di essere perfetto?) che non tornerà più. Ma come facciamo a sapere a priori se quella persona sarebbe potuta guarire, o migliorare, o magari nascere addirittura sana? E come si può pensare a priori di non essere in grado di accogliere una disabilità (... quanti pensavano di essere in grado di essere genitori, prima di diventarlo)? Ogni vita ha una dignità che non spetta a noi giudicare e violare e ha un suo corso che non spetta a noi interrompere a piacimento.

Giulia Tanel 

Fonte, anche per la foto in evidenza: AciPrensa

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