23/09/2017

Aborto: un omicidio. Magari anche da fotografare

Reagan Nielsen è la coordinatrice regionale nel Midwest degli USA dell’associazione “Students for Life of America”, che opera contro l’aborto.

Ha raccontato a LifeSiteNews un episodio accaduto alla Lindenwood University, a St. Charles, nel Missouri, che la ha profondamente colpita.

La Nielsen aveva esposto l’ultimo rapporto stilato da Planned Parenthood sulla sua attività, relativa all’anno fiscale 2013-2014: gli studenti sono rimasti scioccati nell’apprendere che Planned Parenthood pratica 897 aborti ogni giorno e che è finanziata con i denari dei contribuenti.

La maggior parte degli universitari non aveva idea che Planned Parenthood fosse responsabile di così tanti aborti, perché la propaganda spaccia le cliniche PP come centri sanitari per la “salute sessuale e riproduttiva”.

Al termine del convegno, in mezzo a un gruppo di giovani che deridevano e provocavano i prolifers, si è distinta una ragazza, particolarmente aggressiva e strafottente, che però cercava il dialogo – in qualche modo – con la Nielsen. La giovane, di fatto, la tempestava di domande, senza logica, con molti slogan, e non voleva ascoltare risposte. A un certo punto chiede: «Cosa stai a fare qui? Perché odi l’aborto? Perché attacchi Planned Parenthood?». Senza perdere la calma, la Nielsen ha spiegato che in realtà non stava attaccando Planned Parenthood, ma solo esponendo la loro relazione annuale. La giovane ha continuato ad inveire e poi ha chiesto dove le donne dovrebbero andare se non vogliono avere un bambino. La Nielsen, le ha spiegato che i Centri di Aiuto per la gravidanza operano del tutto gratuitamente. La ragazza ha replicato candidamente: «Beh credo che le donne dovrebbero essere in grado di ucciderlo se non lo vogliono». E Reagan: «Ok, allora sai che è un essere umano, riconosci che l’aborto uccide qualcuno!». E lei: «No, è solo sangue. Scherzi a parte, lo so. Io ho avuto un aborto». Lei le ha dichiarato il proprio dispiacere per la cosa, e la ragazza, come per autoconvincersi, le ha risposto che stava benissimo (anche se il viso lasciava trapelare altro). Poi le ha mostrato il suo telefono dicendo di nuovo: «Vedi, è solo sangue!». La ragazza aveva delle foto del bambino abortito sul cellulare. Poi, come se non si rendesse conto di quello che diceva, passando ad un’altra foto ha aggiunto: «In realtà, qui si può vedere una gamba e un piede...».

Quel bambino vittima di aborto era di 15 settimane. La conversazione è proseguita per qualche minuto. Dalla strafottenza iniziale con cui ha cercato di mascherare il dolore per quello che aveva fatto, la ragazza ha iniziato a sciogliersi e ad aprirsi con la Nielsen.

Come spesso succede, il padre del bambino non voleva che lei abortisse, ma lei l’aveva fatto ugualmente per timore dei genitori e perché voleva terminare la scuola. Nonostante fosse a gravidanza avanzata (15 settimane) alla clinica alla quale si era rivolta (Planned Parenthood, per l’appunto) l’avevano fatta abortire con la pillola RU-486.

Man mano che parlava, la giovane ha mostrato di rendersi conto che fino a quel momento aveva mentito a se stessa: non era solo sangue. Sapeva che quello era il suo bambino.

Sono molte, troppe, forse la maggior parte, le ragazze che compiono il gesto più terribile che una madre possa compiere nei confronti del proprio figlio, senza che si rendano conto della gravità e del male che fanno al bambino, e poi anche a loro stesse. La colpa è della cultura della morte che ha forgiato l’opinione pubblica, non nell’interesse dei più deboli (la donna ed il suo bambino), ma del più forte (le case farmaceutiche, o le cliniche abortiste), nascondendo i loro sporchi affari dietro la scusa della salute della donna, dei diritti, della libertà...

Laura Bencetti

Fonte: Notizie ProVita, maggio 2015, p. 10


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