28/08/2018

Aborto, una “scelta” pilotata. Altro che scelta!

Dopo la testimonianza agghiacciante di Carol Everett, che potete leggere qui, ecco quella di altre due donne che lavoravano in cliniche per aborto: leggete come accoglievano le donne e le ragazzine incinte in difficoltà e poi vediamo se qualcuno ha il coraggio di dire che l’aborto è una scelta, che gli abortisti sono “pro choice”, per la scelta e l’autodeterminazione delle donne!

Brenda Pratt-Shafer era infermiera in una struttura per aborti. Nel 2016, ha scritto un libro sulle sue esperienze lavorative, What a nurse saw: eyewitness to abortion (Cosa ha visto un’infermiera: testimone oculare dell’aborto). Vi si raccontano le tattiche utilizzate nelle cliniche specializzate per far sì che le donne uscissero dal colloquio preliminare con la ferma decisione di abortire; il che, neanche a dirlo, garantiva profitti per la clinica. Le testimonianze riportate di seguito illustrano direttive e istruzioni che operatori e infermiere ricevevano all’interno della propria struttura per prospettare alle donne come “unica scelta” (quindi NON una vera scelta!) l’aborto.

«Mi è stato detto senza mezzi termini di convalidare sempre le ragioni della madre per l’aborto», scrive Brenda Pratt-Shafer. «Se la madre andava ancora a scuola, le dovevamo dire che non poteva essere madre proprio adesso; piuttosto aveva bisogno di finire la scuola prima e poi di farsi una famiglia. Se aveva problemi finanziari, le dovevamo dire solo che non poteva permettersi un bambino e che stava facendo la cosa migliore. Se era molto giovane, le dovevamo dire che era troppo giovane per avere un bambino e che probabilmente le avrebbe rovinato la vita. L’aborto era la cosa giusta da fare per poter continuare la sua vita. 

Dicevamo alle donne che l’aborto era una procedura semplice, ed era la risposta giusta ai loro problemi e che poi sarebbero state sollevate, felici. Dopotutto, questa clinica era un business per fare soldi con l’aborto, non per offrire soluzioni alle donne incinte in difficoltà. Qualsiasi motivo la madre avesse per voler abortire, eravamo d’accordo con lei e l’appoggiavamo in tutto. Opzioni come l’adozione o il portare a termine la gravidanza non erano mai state neanche nominate».

Lavonne Wilenken, che ha lavorato in Planned Parenthood, va ancor più nel dettaglio quando descrive la strategia comunicativa nel libro Bad Choices: A Look inside Planned Parenthood (Cattive scelte: uno sguardo dentro PP), di Douglas R. Scott: «Il consulente chiedeva a una adolescente, “Beh, dove sono i $ 250.000 necessari per crescere un bambino nella società di oggi?” Oppure “Cosa diranno i tuoi genitori quando scopriranno che sei incinta?” E “Cosa sta facendo il tuo ragazzo ? Ti sta aiutando? Dov’è?” E “Come finirai gli studi con un bambino? Non sai che non puoi andare a scuola se hai un bambino?” Cose del genere, cose  che spingono la ragazza a decidere per l’aborto...

Prima queste domande. Successivamente la consulente indossava la maschera materna, molto rassicurante “Ma noi possiamo aiutarti. Possiamo aiutarti a risolvere il tuo problema. I tuoi genitori non devono sapere ... Sai che non puoi prenderti cura di un bambino in questo momento. Sai che non sei pronta e vogliamo che tu faccia un figlio quando lo sarai”. Così, ci insegnavano a giocare sulle emozioni di ragazze impaurite,  spaventate, che non sanno  dove andare, cosa fare, mostrando loro che la clinica per l’aborto era  il posto dove andare per ottenere aiuto».

Redazione

Fonte:
LiveAction

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