01/04/2018

Alfie Evans, il silenzio e l’omertà

Abbiamo seguito da vicino la vicenda del piccolo Alfie, come quella della non richiesta “pietà” somministrata forzatamente a Charlie e al “piccolo combattente” Isaiah prima di lui.

Abbiamo lottato assieme ai genitori perché fosse loro riconosciuto il diritto di amare loro figlio e accudirlo.

Siamo inorriditi di fronte a tanto “accanimento anti-terapeutico”, peraltro in assenza di una diagnosi, richiesto a gran voce da chi si dice – a parola – interessato a curare i malati e approvato da chi si suppone – in teoria – debba garantire il rispetto dei diritti e della dignità dell’uomo.

Adesso però non possiamo non chiederci perché la nostra, assieme solo ad altre organizzazioni pro-life, sia l’unica voce in campo. Perché tutti tacciono?

Silenzio assordante sulla vicenda di Alfie Evans

E non solo gli Stati e  le istituzioni che, codardamente, calpestano il principio di sussidiarietà che ha ispirato molte delle carte costituzionali nate o riviste nel primo decennio postbellico, dopo l’orrore nazista, proprio per evitare che la cieca ideologia prevalesse sulla propensione umana alla solidarietà reciproca.

Stupisce ancor più, infatti, il silenzio dei promotori della morte, di coloro che dovrebbero essere entusiasti di fronte a queste conquiste, frutto del loro duro e caparbio quotidiano lavoro.

Perché nessuno interviene nel dibattito affermando che l’uccisione di Charlie, di Isaiah e ora la purtroppo probabile replica su Alfie sono passi importanti del progresso sociale, segni di civiltà e di tutela del “diritto alla morte”?

Perché nessuno parla più di “autodeterminazione”, elogiando le logiche conseguenze alle quali leggi come le Dat stanno conducendo Paesi più “avanti” del nostro?

Certo, perché se è vero che l’uccisione (attiva o passiva) di un sofferente è fatta “nel suo interesse”, quando i genitori vanno contro cotanto “interesse” del minore, è ovvio che lo Stato lo “tuteli”, no?

Lo so, è un’affermazione così paradossale che va riletta più volte per capacitarsi del fatto che rispecchi davvero la posizione e il modo di pensare di alcune (e neanche poche) persone.
Ma allora perché i progressisti non urlano inferociti chiedendo che l’inoppugnabile sentenza del Tribunale di Londra, confermata anche dalla Cedu, sia eseguita subito, senza ulteriori e “pericolosi” rinvii? Perché non si levano pomposi e indignati sermoni contro chi, a detta loro, è accecato dall’arretratezza culturale, da quell’atavico e per loro incomprensibile istinto di considerare la vita “un bene” e la morte “un male”?

Non sarà che, come accade sempre quando la sfera comincia a correre sempre più veloce sul piano inclinato, qualcuno di quelli che l’hanno lasciata scivolare si sta rendendo conto che la situazione comincia a sfuggire di mano?

O più semplicemente non si ha il coraggio di ammettere, neppure a se stessi, che certe posizioni possono aver ingenerato scenari, come questi, altamente impopolari perché toccano nell’intimo il cuore della gente, perché fanno vedere con gli occhi ciò che l’ideologia nasconde con oscure maschere?

E già, perché come si può conciliare un “diritto all’autodeterminazione” con il disperato tentativo del piccolo di restare aggrappato alla vita e con la disperazione dei genitori che vedono il loro innocente bambino condannato ad una morte certa e voluta da chi se ne dovrebbe invece prendere cura?

Come conciliare il rispetto per la “dignità umana” con la disumanità con cui questa famiglia è costantemente trattata, senza alcun rispetto per il loro dolore?

Come poter considerare un indice di progresso l’accordo di medici e giudici, avallati dalla politica, su veri e propri omicidi di Stato perpetrati in Paesi che si dichiarano democratici, contro l’innato desiderio di vivere del piccolo sofferente e dei suoi genitori?

Tante domande questa volta e nessuna apparente risposta. Se non quella, unica e inconfondibile, che risiede proprio nell’insopportabile e innaturale omertà che contorna le esecuzioni tutte, ma in particolar modo quelle degli innocenti, in ogni forma di totalitarismo.

Giuseppe Fortuna

 


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