11/01/2019

Azerbaijan, il Paese dell’aborto selettivo

Tanto per cambiare, i media non ne parlano, ma nel mondo c’è una nazione in cui non solo nascono poche femmine, ma darne alla luce è ritenuto disonorevole. Quasi una cosa di cui vergognarsi. È l’Azerbaijan, Stato che faceva parte dell’ex Unione Sovietica, delimitato dal Mar Caspio e dal Caucaso, a cavallo tra Asia ed Europa. In questo Paese, infatti, non solo l’aborto selettivo è diffusissimo ma esiste perfino una parola – il termine «sonsuz», che significa sterile – ritenuta altamente disonorevole dagli azeri, i quali la impiegano per indicare le donne che partoriscono solo femmine.

Lo stigma è talmente forte che, pur di evitare di essere apostrofate come «sonsuz», le donne dell’Azerbaijan pare siano abituate a chiamare le proprie figlie Kifayət o Yetər, nomi che significano «è abbastanza» o «l’ultima», una sorta di presagio al prossimo figlio maschio. Il risultato di questa cultura femminofoba – curiosamente ignorata dalle tante paladine del femminismo 2.0, sempre solerti quanto si tratta di denunciare violenze vere o presunte ai danni delle donne – è che l’Azerbaijan presenta uno dei più alti tassi di aborto selettivo al mondo, con donne senza nessun potere che, pervase dal senso di colpa, preferiscono abortire pur di non dare alla luce una figlia femmina.

Al punto che, da quelle parti, nascono ogni anno molti più maschi che femmine. Un primato che è chiaramente anche un dramma di cui si tarda ad accorgersi. A naso, il motivo di tanta indifferenza dev’essere lo stesso che ha fatto e fa sì che, nonostante siano passati decenni dalla prima denuncia internazionale del fenomeno – denuncia ad opera, manco a dirlo, di una donna, Mary Anne Warren (Gendercide, Rowman & Allanheld, 1985), dell’aborto selettivo si continui a non parlare. E dire che non si tratta affatto di una realtà che interessa il solo Azerbaijan.

Basti pensare alla Cina, che dopo decenni di aborto selettivo si è trovata a fronteggiarne gli amarissimi esiti, consistenti in 400 milioni di nascite impedite e un numero spropositato di maschi che, se la matematica non è un’opinione, non potranno mai sposarsi o dovranno farlo molto avanti negli anni. Al punto che Pechino ha fatto marcia indietro approvando, nel 2013, una svolta nella propria legislazione che permette alle coppie di figli unici di avere due figli: un tentativo di rimediare al disastro, in parole povere. Ma se Azerbaijan, Cina e in generale l’Asia piange, non è che l’Occidente sorrida.

Infatti l’aborto selettivo dilaga anche da noi, perfino in Italia, come documentato da tempo, ancora una volta, da una donna, Anna Meldolesi, autrice di un testo eloquente già nel titolo: Mai nate (Mondadori, Milano 2011). Libro di spessore ma, stranamente, praticamente ignorato. Così come quasi ignorata, tornando a noi, è la realtà italiana dell’aborto selettivo come prima e più spietata frontiera del femminicidio.  Una realtà che ad oggi interessa per lo più le comunità asiatiche immigrate, ma che non sfugge alle statistiche.  Che ci dicono, per esempio, come il sex ratio – cioè il rapporto tra maschi e femmine alla nascita, che in condizioni normali è di 105 a 100 – nelle comunità cinesi sia pari a 119 maschi contro 100 femmine, mentre arriva persino a 137 a 100 nelle comunità indiane.

Il che a lato pratico significa decine, anzi centinaia non di femmine uccise, ma di uccise in quanto femmine. Il pur pazzesco Azerbaijan è insomma meno lontano di quanto sembri. Perché in Italia, fortunatamente, non si è ancora radicata una cultura che irride chi mette al mondo bambine; ma l’omertà sul dramma dell’aborto, a ben vedere, non è poi così diversa. Un motivo in più per spendersi per il diritto alla vita, della cui violazione le donne sono e restano le prime vittime. Anche prima di nascere.

Giuliano Guzzo

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