09/07/2013

Il “caso Savita” e le balle degli abortisti

La liberalizzazione dell’aborto è sempre stata approvata tramite menzogne. In Italia, abbiamo ricostruito la vicenda, la tattica dei Radicali è stata quella di gonfiare il più possibile i numeri sull’aborto clandestino, violando platealmente le leggi statistiche, oltre che strumentalizzare i fatti della diossina di Seveso (MB).

In Irlanda l’aborto è un atto illegittimo e un reato penale punibile con la reclusione in quanto tramite l’interruzione di gravidanza avviene l’uccisione di un essere umano. Dal 1992 è consentito soltanto in determinate circostanze, ovvero quando “la vita di una donna è a rischio a causa della gravidanza, compreso il rischio di suicidio” (i dati indicano una media di un aborto ogni due o tre anni). Da tempo il mondo abortista cercava un espediente da usare come grimaldello per legittimare l’aborto libero, tuttavia il tasso di mortalità materna in Irlanda è tra i più bassi al mondo, ben al di sotto di tutti i Paesi in cui l’aborto è legale.

Nel 2012 si è improvvisamente presentato il “caso Savita” ed è stato immediatamente sfruttato. Secondo il racconto dei media, Savita Halappanavar si è presentata in stato di gravidanza (17° settimana) il 21 ottobre 2012 presso l’University Hospital di Galway, in Irlanda, accusando un forte mal di schiena e, si dice, chiedendo di abortire. L’ospedale tuttavia le avrebbe risposto che non era in pericolo di vita e non avrebbero agito come da lei richiesto perché “questo è un Paese cattolico”, inoltre il cuore del feto batteva ancora. Nel corso dei giorni, il feto è morto spontaneamente e l’utero è stato svuotato ma a Savita è stata diagnosticata una setticemia che l’ha portata a morire il 28 ottobre 2012. Ovviamente in tanti hanno sostenuto che la sua morte è stata causata dalla restrittiva legge sull’aborto e che Savita è una martire della crudeltà cattolica.

Chi è stato attento finora alla descrizione dei fatti ha già capito che il caso dovrebbe essere già chiuso: se davvero Savita fosse arrivata in ospedale col rischio di morire a causa della prosecuzione della gravidanza, i medici non avrebbero potuto rifiutarle l’aborto, dato che già la legge lo prevede. Non ci sarebbe altro da aggiungere, se non che con il passare dei mesi quasi tutte le notizie iniziali sono state ritrattate e chiarite, anche grazie ai risultati di una apposita commissione che ha pubblicato i risultati nel Arulkumaran report del 13 giugno scorso.

Innanzitutto si è scoperto che la notizia della morte di Savita ha iniziato a circolare tra i pro-choice irlandesi prima ancora che diventasse di dominio pubblico così da preparasi a strumentalizzare il caso, in seguito c’è stata la ritrattazione della reporter Kitty Holland che ha annunciato per prima la vicenda. Ha affermato, infatti, di essere tutt’altro che certa del fatto che Savita avesse davvero chiesto di abortire (e che quindi ci fosse stato il rifiuto da parte dei medici di procedere all’interruzione della gravidanza). Durante le indagini, l’avvocato del marito della donna ha anche affermato che il proprio assistito voleva sapere perché per Savita non si optò per l’aborto, ma che non aveva mai detto che interrompendo la gravidanza la moglie avrebbe potuto salvarsi.

La dott.ssa Katherine Astbury, medico curante della signora Halappanavar, interrogata sui fatti ha testimoniato che mentre aveva inizialmente negato l’aborto a Savita il 22 ottobre 2012, in quanto non era medicalmente necessario, ha poi cambiato idea quando la sua condizione è peggiorata, ma a quel punto il bambino era già morto spontaneamente. La dottoressa ha anche spiegato che la questione dell’aborto è stata affrontata una sola volta con la signora Halappanavar, in quanto era evidente ad entrambe che non c’era al momento alcuna minaccia per la sua vita o la salute. Un’amica di Savita, Mrudula Vasealli, ha invece testimoniato di aver chiesto, assieme a Saviata, ad una ostetrica, Anna Maria Burke, se si “poteva fare qualcosa” per fermare il battito cardiaco del bambino, ma ella ha risposto: “Noi non lo facciamo qui. E’ un paese cattolico”. La donna si è in seguito scusata spiegando comunque che l’osservazione non aveva nulla a che fare con la prestazione di cure. Il personale medico della University Hospital di Galway ha fin da subito respinto l’accusa di dipendere da un “ethos cattolico” che influenzerebbe le decisioni dei trattamenti.

Savita è morta per una infezione fatale: il presunto aborto negato e l’ethos cattolico non hanno nulla a che vedere con la tragedia della giovane madre. Questo il verdetto unanime della giuria chiamata ad esprimersi, che ha anche fornito una serie di raccomandazioni affinché casi del genere non si ripetano, come ad esempio quello di chiarire esattamente quando una donna si trovi in pericolo di morte. Il rapporto Arulkumaran ha semplicemente dichiarato una negligenza medica e una non aderenza alle linee guida cliniche relative alla gestione rapida ed efficace della sepsi, senza imputare l’accaduto alla mancata interruzione di gravidanza. La terza inchiesta voluta dal ministero della sanità per appurare le cause della sua morte arriverà ad un verdetto definitivo non prima della fine dell’estate.

Nel frattempo in questi giorni il parlamento irlandese sta votando una proposta di legge che dichiarerebbe espressamente legale l’aborto nel caso di minacce di suicidio (fin’ora era a discrezione dei medici). Nel primo voto la misura è stata approvata, la decisione finale è attesa la prossima settimana. In ogni caso in molti vedono questo punto come fin troppo interpretabile e temono che gli abusi possano facilmente moltiplicarsi: chiunque infatti può minacciare di togliersi la vita solo per chiedere in realtà di interrompere la gravidanza. E la paura è che questo sia solo il primo step (“un cavallo di Troia”) di un nuovo corso legislativo sempre più favorevole all’aborto. In ogni caso il primo ministro, Enda Kenny ha più volte dichiarato che il ddl «non cambierà la legge irlandese sull’interruzione della gravidanza», che rimarrà illegale nella gran parte dei casi.

Rimane l’amarezza per come è stato strumentalizzato un fatto tragico come la morte di Savita. Come ha concluso lo storico Tim Stanley sul “Telegraph”: «il giornalismo applicato alla Chiesa è spesso irregolare. Possiamo perdonare un piccolo malinteso se si tratta di teologia. Ma quel che davvero si rileva spesso è l’odore l’odore sulfureo di una caccia alle streghe anticattolica».

Fonte: UCCR

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