10/10/2017

Il dolore nella “dolce morte” è lo stesso della pena di morte?

Quando ci parlano di eutanasia o suicidio assistito, parlano di “dolce morte”, ce la presentano sempre come un qualcosa di apparentemente pulito e senza inganno e che non arrechi il minimo dolore a chi ne usufruisce. Un atto di carità procurato a chi ha il “mal di vivere”, ormai per le ragioni più disparate.

Non è esattamente questo ciò che accade: neanche quando si commina la pena di morte. Lo leggiamo in un articolo di Bioedge che presenta gli studi sul fine vita del ricercatore Sean Riley, comparsi anche nell’ultimo numero del Journal of Law and Biosciences. Alla luce di queste ricerche, pare che la medicina al giorno d’oggi non sia ancora in grado di procurare la morte senza il dolore.

I farmaci letali usati per le esecuzioni negli Stati Uniti hanno anzitutto un costo elevatissimo, a causa della loro scarsità. Quindi ci si arrangia, e negli ultimi tre anni si è vista una crescita sproporzionata di esecuzioni mal riuscite in cui il prigioniero prima di morire ha vissuto un’agonia piena di dolore.

Si riscontra, nei dati forniti dall’Oregon, che anche un 5% di casi in cui il paziente ha subito l’eutanasia o il suicidio assistito che la morte non è stata affatto “dolce”:  ha subìto difficoltà, come rigurgito e convulsioni, e in sei casi i pazienti si sono risvegliati dopo giorni di incoscienza. Inoltre, molte delle droghe letali fabbricate a questo scopo sono contaminate tanto da aver provocato in Massachusetts una epidemia nazionale di meningite.

E’ un’amara e tragica ironia affermare che il suicidio assistito è tanto doloroso quanto la pena di morte!

Comunque, il fatto che una morte sia indotta con più o meno dolore non muta la crudeltà intrinseca dell’atto.

Ma in ogni caso, che si sia d’accordo o meno con queste pratiche, la verità va detta: il condannato o paziente in questione non è affatto esente dal dolore e questi tipi di morte indotta tutto sono tranne che dolci!

Luca Scalise


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