25/03/2019

L’eutanasia preventiva: quando la malattia si chiama vita

È un’epoca strana questa, in cui la libertà dell’uomo sembra concretizzarsi in una sorta di odio verso se stesso, se “autodeterminazione”, principio sbandierato ogniqualvolta si voglia giustificare un’azione al limite del disumano, oggi fa rima principalmente con aborto ed eutanasia. Ma la cosa più incredibile è che ormai non ci si “accontenta” più di decidere della vita e della morte degli esseri umani ma si è, da qualche tempo, anche intrapresa una specie di corsa verso una forma di eutanasia “anticipata”.

Ci riferiamo all’ultima trovata “mortifera” olandese: l’eutanasia preventiva ovvero il ricorso al “suicidio assistito” dopo la semplice diagnosi di una malattia degenerativa, incredibilmente prima ancora della sua insorgenza piena. Come accaduto ad Annie Zwijnenberg, una signora olandese di 81 anni che ha deciso di farsi sopprimere dopo che il suo medico le aveva comunicato che era affetta da Alzheimer. La cosa più sorprendente è che la decisione della donna, irremovibile fino alla fine, sia stata presa al momento stesso della diagnosi, cosa che denota una visione non solo della morte, ma anche della vita, del tutto disperante: nella mente di Annie infatti, non è balenato nemmeno per un secondo, che la vita spesso riservi autentiche sorprese e che perciò la sua fine naturale avrebbe potuto verificarsi anche indipendentemente dal morbo diagnosticatole; tanto più sorprende la reazione tranquilla e serena della figlia che, anziché disperarsi per la decisione della madre e tentare anche l’impossibile per farle cambiare idea, racconta, nel documentario Prima che sia troppo tardi del regista olandese Gerald van Bronkhorst, con grande serenità, la sua ultima sera “da viva” come qualcosa di piacevole.

Ecco le sue spazzanti parole: «Le ho chiesto, ‘Cosa vuoi fare prima di morire?’ Abbiamo fatto un bel pranzo, riso e pianto. Non c’era un domani quella sera, era così speciale». E forse la chiave dell’incredibile vicenda potrebbe essere proprio in quel “non c’era un domani”, che sembra quasi denotare l’assenza di un “orizzonte ultimo” verso cui proiettare la propria vita, le proprie azioni, il senso stesso della propria sofferenza, cose, invece, evidentemente vissute come “schiacciate” su un eterno presente senza prospettive “altre” e, forse, in ultima analisi, senza un vero senso. La morte della donna è avvenuta in un clima surreale, col dottore che le porge il bicchiere con una dose letale di sedativo, in seguito alla quale si addormenta immediatamente e comincia a russare, mentre, immediatamente dopo, per “sicurezza”, le viene anche fatta un’iniezione letale.

Allora viene da chiedersi se davvero questa è la fine più dignitosa che la donna avrebbe potuto scegliere, assistita da un medico-boia a cui interessa solo sbrigare in fretta questa ennesima “pratica” e se la “dolce morte” sia davvero tale e da che punto di vista, considerato che, in ultima analisi, porta di fatto a troncare la propria esistenza e non sempre (come dimostrano questo e tanti altri casi simili) per porre fine a sofferenze insopportabili. Quanto può essere “dolce” una morte che viene cercata nel momento in cui si percepisce la propria vita come la vera malattia e la fine di essa come il vero unico rimedio o più che morte indolore è solo disperazione, angoscia e solitudine?

Manuela Antonacci

 

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