24/11/2018

Lo strazio di una moglie dopo il suicidio assistito del marito

Nessun uomo è un’isola. La morte di uno sconvolge sempre la vita di qualcun altro. Il suicidio ancor di più.

La moglie di un giornalista inglese che è andato a farsi uccidere in Svizzera, racconta in un libro la sua agghiacciante esperienza.
Si tratta di Deborah Binner (nella foto col marito) che ha raccontato il dolore e l’orrore che le ha procurato il suicidio assistito in Svizzera di suo marito Simon, 57 anni, giornalista di Sky. La donna – tra l’altro – ha potuto tragicamente paragonare la morte “autodeterminata” del marito con quella della figlia diciottenne, avvenuta tre mesi prima, vinta da un cancro.

Simon aveva combattuto per dieci mesi con una malattia neurodegenerativa, tipo la Sla, e aveva quindi deciso per la morte assistita, quando ancora era in buona salute. La moglie ha rispettato questa sua decisione, pur essendo radicalmente in disaccordo con lui. Anche perché lui ha tentato due volte il suicidio in casa.
Con la solita equipe di giornalisti (della Bbc) che vanno a fare spettacolo su una tragedia intima (sono relativamente pochi gli inglesi che vanno in Svizzera a farsi uccidere: è una “notizia”!), avvisata e voluta dallo stesso Simon, Deborah racconta con angoscia quel viaggio senza ritorno: la cena della sera prima, con poche persone, le più intime, durante la quale Simon sembrava freddo, felice, protagonista in primo piano sotto i riflettori, come era nel suo stile, fino alla fine; la notte in albergo, abbracciata a lui, senza dire neanche una parola.

La donna ha vissuto tutto questo con uno straziante e profondo dolore. Il libro si intitola Yet Here I Am: One Woman’s Story of Life After Loss (Però io sto ancora qui: storia di vita di una donna dopo una perdita), è un manifesto contro il suicidio assistito e l’eutanasia.
Razionalmente, dice la Binner, comprende le motivazioni del marito. Ma il suo cuore le dice ancora no. «C’è una parte di me che crede davvero sia meglio lasciare che la natura faccia il suo corso».
Il marito, che si è fatto uccidere per non far soffrire la moglie e non esserle di peso con l’incedere della malattia, le ha in realtà arrecato un profondo truma. La donna scrive che i malati possono perdere di vista i reali sentimenti delle persone che hanno intorno. E se l’eutanasia o il suicidio assistito diventano una prassi consolidata e facilmente percorribile saranno sempre più quelli spinti a optare per la morte, per non diventare un “fastidio”.
Ma lei, Deborah, dichiara apertamente di essere proprio arrabbiata col marito per averla lasciata sola anzitempo: «Questo non era “nei patti”...».
Durante tutto il tempo, durante gli anni di vita insieme e poi durante la sua malattia, lei ha avuto cura di lui, come ogni moglie, anzi, come ogni coniuge normalmente ha cura dell’altro. Condividere la vita è preoccuparsi insieme di ciò che si mangia, dello sport, degli incontri… Anche quando si è ammalato, Deborah ha fatto di tutto per aiutarlo con le visite mediche, le medicine, lo stile di vita necessario per affrontare al meglio il male: «Ma non era abbastanza. Non ero abbastanza. Tutto il mio amore, con tutto il cuore, è stato inutile».
Con la sua “scelta”, Simon ha fatto sentire Deborah abbandonata. Il suicidio è stato un gesto di ingratitudine e di egoismo.

Probabilmente, lui aveva bisogno di una morte “spettacolare”, sotto i riflettori, perché «l’intimità di una morte privata sarebbe stata troppo dolorosa per lui», scrive Deborah, «avrebbe significato affrontarla più direttamente, senza distrazioni».
Anche la morte della figlia, Chloë, dopo una battaglia durata tre anni con il cancro è stata una tragedia per la madre: «Sembrava che qualcuno mi avesse strappato il cuore dal corpo con le mani. Il dolore era così intenso che, a volte, ho pensato di morirne». Tuttavia, lentamente, in quella circostanza Deborah si è resa conto di aver cominciato a elaborare il lutto: «Sapevo di non aver lasciato nulla di intentato, ho combattuto con tutta la potenza che mi è stata possibile per salvarla. E alla fine, la sua morte è stata dolce, gentile, a casa. Ero seduta, e lei stava tra le mie braccia, le accarezzavo la testolina con i pochi capelli che le erano rimasti. Mi ha detto che era felice. Incredibilmente, in quel momento, ero felice anch’io».
È stato «il peggiore e il migliore momento della mia vita. Ho toccato l’amore al suo livello più profondo». Il contrario della morte di Simon, che le è sembrato arrabbiato, cinico, crudele. Per lui era importante essere coraggioso e apparire coraggioso. «So che le sue intenzioni erano buone: voleva risparmiarmi un dolore… ma mi ha fatto davvero tanto male» e il male dura tutt’ora. Sarebbe stato altrettanto coraggioso se avesse accettato di vivere con la malattia, la disabilità, abbracciare la sua vulnerabilità, accettare di non avere un controllo totale sulla sua vita e sulla sua morte. Accettare l’amore della moglie che si sarebbe presa cura di lui fino alla fine.
Deborah Binner ha imparato molto bene e a sue spese che sbagliamo a chiamare “incurabili” i mali “inguaribili”: la “cura” è sempre possibile e doverosa. Come è avvenuto per Chloë. È stata curata fino alla fine, quando non c’era più niente da fare, con le cure palliative (vere: quelle che non abbreviano la vita del paziente). La sua vita è stata estremamente dignitosa, fino all’ultimo.

Simon, quando si è fatto uccidere, aveva un’aspettativa di vita tra sei mesi e tre anni. Guardarlo pianificare la propria morte, mentre lei voleva più tempo per stare con lui, è stato un trauma per Deborah. Ha provato a dirgli che lei non voleva che andasse in Svizzera e non l’avrebbe accompagnato e lui ha cercato di impiccarsi e di buttarsi dalla finestra.
Il momento in cui doveva iniettarsi il veleno doveva essere registrato, per motivi legali, perché ci voleva la prova che si trattava di un suicidio. Simon lo ha fatto guardando direttamente nell’obiettivo con un sorriso di sfida. «Quell’immagine è congelata nella mia mente. Sembrava così dignitoso, così pronto ad andarsene». «La forza mi ha abbandonata, le gambe mi si sono piegate. Ci sono voluti un paio di minuti. C’è voluta una vita. La stanza improvvisamente mi è sembrata priva di ossigeno, come in aereo quando c’è un lungo vuoto d’aria».

«Come se qualcosa di enorme avesse abbandonato la stanza, lasciando uno spazio senza aria intorno a noi. Ho ansimato per riprendere fiato. “Era l’anima che se ne andava?” Mi chiedevo»Quella che per Simon è stata la fine del dolore, per Deborah è stato solo l’inizio. La sua salvezza sono stati i figli e i nipotini che le rendono la vita degna di essere vissuta. Ha scritto questo libro perché spera che la sua esperienza possa aiutare le mogli, gli amici, i membri della famiglia che restano feriti mortalmente dal suicidio di una persona a cui vogliono bene: è normale che si chiedano: «Abbiamo fatto abbastanza per lui?»: il senso di colpa sarà difficile da gestire.

Francesca Romana Poleggi

Fonte (anche per la foto): Daily Mail

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