30/12/2012

New York, la neonatologa italiana che batte l’aborto con la «comfort care»

«Quando studiavo medi­cina all’università, de­cisi di diventare neo­natologa perché vole­vo aiutare con le mie conoscenze i bambini che venivano al mondo con problemi di salute. Il mio desiderio era di vederli guarire per poi poterli mandare a casa sani e felici con i lo­ro genitori. Ma poi mi è accaduto di prendermi cura anche di quelli che hanno una vita brevissima, e che a casa non tornano. Non è stato per un progetto, mi ci sono trovata in mezzo. E dicendo sì a quelle circo­stanze ho imparato cos’è la vita e co­sa vuol dire fare il medico». Elvira Parravicini, brianzola di Seregno tra­piantata negli Stati Uniti, dal 1998 lavora al Morgan Stanley Children’s Hospital di New York, un ospedale pediatrico affiliato alla Columbia U­niversity. «Come neonatologa mi è sempre piaciuto partecipare alla dia­gnosi prenatale per poter dare ai ge­nitori una prospettiva di cura per i lo­ro bimbi, ancora prima che nasca­no. Putroppo però la diagnosi pre­natale è sempre più centrata sull’i­dentificazione dei difetti congeniti al fine di abortire il bambino, nel ca­so non sia sano. Eliminare il pazien­te invece di curarlo mi sembrava la negazione della mia vocazione pro­fessionale, per cui ad un certo pun­to ho smesso di partecipare alle riu­nioni settimanali di diagnosi prena­tale in ospedale, dove i ginecologi proponevano sempre l’aborto e io mi sentivo impotente e inutile. Do­po due anni di assenza, nel 2006, un giorno una collega dell’ostetricia mi rilancia l’invito: “Elvira, perché non torni? Sono riunioni interessanti, si imparano tante cose”. Mi sento pro­vocata, Qualcuno mi sta chiamando a ritornare lì. Va bene, mi dico: soffrono i bambini, soffrirò anch’io con loro. E decido di provare.

Tre giorni dopo par­tecipo alla riunione e, incredibilmente, vengono presentati due casi di donne gravide che aspettano bambini con patologie life-limiting – letali, non suscettibili di trattamenti medici o chirurgici – e quindi destinati a un’e­sistenza molto breve, le cui madri non vogliono abortire. I ginecologi sono sorpresi e smarriti: che si fa? A quel punto alzo la mano e dico: mi prendo io cura di loro, propongo la comfort care, c’è una possibilità di trattamento medico anche per que­sti piccoli’. Capivo che la vita, anche se è corta, deve essere la più bella e intensa possibile».

La comfort care è una pratica medi­ca che ha come fine aiutare il pa­ziente a ‘sentirsi bene’, per quanto possibile, in qualsiasi condizione si trovi. E così il benessere della perso­na diventa il centro del trattamento. Dovrebbe essere usato sempre nel­la pratica medica, perché ogni pa­ziente vuole ‘sentirsi bene’, ma qui diventa lo scopo della terapia medi­ca e infermieristica. Ed è prenden­dosi cura di queste fragili esistenze che Elvira ha ‘imparato’ cosa vuol dire essere neonatologa.

L’ha capito, ad esempio, imbatten­dosi in Alessandra, 800 grammi alla nascita, con una grave infezione in­testinale che le ha distrutto l’intesti­no. «Non c’è più nulla da fare, la­sciamola morire», dicono i chirurghi all’uscita dalla sala operatoria, ma i ge­nitori supplicano di lasciarla attaccata al ventilatore per qual­che giorno, per po­terle stare vicini pri­ma della fine. «Ho proposto un tratta­mento di comfort care con una ventilazione minima di supporto, antibiotico e morfina o­gni tre ore, e siamo stati a guardare come andavano le cose. Alessandra era circondata da persone che le vo­levano molto bene e non davano nulla per scontato. Col passare del tempo la ferita comincia a guarire, lei si muove ogni giorno un po’ di più, fino a che – incredibile! – dico ai ge­nitori che si può interrompere la ventilazione perché respira da sola. Sono tornati a casa contro ogni pre­visione, la bimba aveva un intestino lungo solo 10 centimetri, necessita­va di nutrizione endovenosa e pote­va prendere solo piccolissime quan­tità di latte per bocca. Ma era viva, e al suo primo compleanno è stata fe­sta grande, con i genitori, l’infer­miera Debbie che non l’ha mai ab­bandonata un momento e me. Prendendomi cura di lei, è diventato più chiaro che il mio la­voro è prima di tutto un dialogo col Mistero che parla attraverso la realtà di questi bimbi, così che noi possia­mo trattarli al meglio dal punto di vista medico».

Un’altra lezione è venuta da Nilah, 406 grammi alla nascita, una vita su cui nessuno osava scommettere. «Prendendomene cura, mi sono af­fezionata a lei e ai suoi genitori al punto che ho deciso di diventare la sua ’dottoressa esclusiva’. Indipen­dentemente dai miei turni, ogni giorno passavo a visitarla. Dopo un mare di complicazioni e sei mesi di ospedale, smentendo qualsiasi pre­visione, è arrivato il giorno di torna­re a casa. I genitori mi chiesero di es­sere la madrina di battesimo, e que­sto mi rese ancora più consapevole che la vita di Nilah non era nelle mie mani, e io potevo solo assecondare la volontà di un Altro. La cosa di­venne ancora più chiara quando, do­po qualche mese, mi presi cura di Si­mona, la figlia di miei amici carissi­mi, nata prematura e molto malata. Nelle sei ore che ho passato a riani­marla, mi sono resa conto che tutto il mio impegno, la professionalità, l’esperienza che mettevo in campo, non avrebbero potuto modificare il corso della sua vita se non c’era un Altro che lo decideva. Dovevo dare tutto di me come medico, ma la sua vita era nelle mani di un Altro che si faceva conoscere attraverso il pa­ziente stesso». Molti pensano che la comfort care comporti un dispendio eccessivo in termini di tempo, personale, farma­ci e attrezzature rispetto al risultato finale, che quasi sempre è la morte del bimbo. «Ma la medicina non può essere gestita secon­do criteri meramen­te economicistici – ribatte Elvira –.

La questione di fondo è che si può stare di fronte alla vita e alla morte solo ricono­scendo che hanno un senso e ultima­mente non dipen­dono dall’uomo. E se si è consape­voli che il primo bisogno di un bim­bo è quello di sentirsi accolto, biso­gna facilitare il contatto fisico con i genitori. Qui in America è molto ac­cesa la polemica tra pro life e pro choice, ma si rischia una contrappo­sizione meramente ideologica. Io di­sapprovo l’aborto, lo considero un crimine. Ma non voglio combattere guerre, offro alle donne un’alterna­tiva con la comfort care. E accade che sempre più mamme che hanno dubbi sulla scelta da fare, quando sanno di questa possibilità la chie­dano per sé e i propri figli. Capisco­no che è qualcosa di bello, e la bel­lezza ha una capacità di attrazione più forte di tante polemiche. Si dice che quando nasce un bambino con problemi e destinato ad una breve e­sistenza, le madri vengano prese dal­lo sconforto, ma le assicuro che il sentimento prevalente è la gioia di vederlo nascere e di averlo con sé, anche per un tempo breve. Allora si assiste alla vittoria della bellezza sul limite, perché la vita, qualsiasi vita, è esigenza di felicità. E il momento della nascita è quello in cui ciò è più evidente».

L’ultima conferma è arrivata pochi giorni fa, quando El­vira si è occupata di Milagros, che i geni­tori hanno fatto na­scere anche dopo u­na diagnosi infausta: trisomia 18 e grave cardiopatia. «Le hanno messo un ve­stitino elegante, è stata battezzata dal cappellano dell’o­spedale, poi li abbia­mo lasciati soli – lei, la mamma e il papà – nella loro camera. E quando è spirata, la madre mi ha confidato: ’Sa dottoressa, è stato proprio bello, mi ha sorriso per tutto il tempo, ab­biamo passato sei ore di felicità con la nostra bimba, una felicità breve ma così intensa...». Quando accadono fatti come questi, Elvira capisce che valeva la pena alzare la mano davanti ai suoi colleghi, quel giorno del 2006, per dire che c’è una possibilità di­versa dall’aborto. Anche per vivere solo sei ore, come Milagros.

di Giorgio Paolucci

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