29/07/2017

Ninna nanna, Charlie!

Riposa in pace,  piccolo Charlie!

Staccato il respiratore che ti teneva in vita, il tuo cuoricino ha smesso di battere e il tuo visino si è impietrito nell’adulta fissità della morte; tu, così piccolo e inerme, così radicalmente impotente ed innocente, tu, con il tuo orsacchiotto di peluche e i disegni colorati adagiati sul lettino…

Lasci noi, i grandi, che abbiamo rimosso da tempo le nostre fantasie e i desideri più ingenui in una confusione paradossale. D’accordo, si farà presto a rimuovere anche questa, ma occorrerà raschiare il fondo di quel che resta dell’incanto infantile, che è dentro di noi, per attaccarvici sopra una ragione.

Siamo gli adulti di un’epoca di ovvie serietà: la scienza, il diritto, la nostra libertà senza scopo e quella mentalità illuminista e secolarista, che già da tempo ci ha portati a concepirci come i padroni della vita. Il pregiudizio che tutto dipenda dalla nostra autodeterminazione e che nulla possa esserci al di là dell’autonomia individuale e individualistica ci caratterizza e condiziona.

Pretendiamo di essere creatori alle radici del nostro essere. Viviamo come non mai di assoluti e universali. Ci lasciamo guidare da un principio tanto elementare quanto grossolano, se trasferito in etica, quello dell’efficacia. In realtà, maneggiamo dall’esterno con la parte più interna, più profonda e segreta, in modo frammentario con il tutto, avendo la presunzione di creare forse una specie superiore.

Ma proprio nel trafficare «in modo maldestro e presuntuoso intorno al delicato cuore della creazione», come scriveva Hans Jonas, si rivela il nostro limite. Perché le nostre categorie mentali sono legate all’empiricità, non solo nel senso di non ammettere riferimenti a realtà che possano oltrepassare il piano dell’esperienza, ma anche nel senso di aver svuotato di significato qualunque domanda di senso.

Ma, al capezzale di questo bambino, si è mostrato un valore morale che va al di là dell’obbligo e tocca una corda delicata e sacra, un appello, in cui all’argomentare subentra l’ascoltare, elevando il discorso dal piano etico alle più segrete e profonde implicazioni metafisiche e religiose. È emersa una dimensione più essenziale e originaria, dove si sono visti tutti i limiti del nostro mondo, che coincidono poi, come diceva Wittgenstein, con i limiti del nostro linguaggio.

Perché ormai è evidente che non possiamo più illuderci di raggiungere un punto a partire dal quale poter disporre dell’ente, ma dobbiamo effettuare un salto al di là della ragione rappresentativa, verso il luogo dove la verità non ha più il senso della conformità proposizionale, ma quello della disvelatezza. In un mondo che funzionalizza ogni spazio, che esaurisce ogni spiegazione, ormai «dobbiamo sapere che ci siamo avventurati molto in là e dobbiamo reimparare a sapere che esiste un troppo in là» (Hans Jonas).

E la cosa singolare è che questo troppo in là non è poi così distante, ma è in quella culla di bambino che non farà a tempo a imparare i giochi della sua età, in quel nome, Charlie, non più confondibile in un’uniformità anonima, in quel volto che, pur nella sua estrema vulnerabilità, custodiva quella differenza incatturabile, che implica l’inesauribilità del mistero dell’essere uomo.

Ninna nanna, piccolo mio.

Clemente Sparaco


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