14/09/2018

Suicidio: una scelta privata? Un atto di libertà?

Anche quest’anno, il 10 settembre, come accade dal 2003, si è celebrata la Giornata mondiale per la prevenzione del suicidio, iniziativa promossa dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) e dall’Associazione internazionale per la prevenzione del suicidio (IASP) (ne abbiamo parlato qui).

Tuttavia, nonostante un’iniziativa come questa abbia lo scopo di ricordare la gravità di un gesto estremo come il suicidio, paradossalmente, in tutto il mondo, gli attivisti del cosiddetto “suicidio assistito” sono febbrilmente all’opera e sembrano riscuotere grande successo presso le istituzioni politiche e sanitarie.

L’hanno legalizzata come gesto “estremo” a cui ricorrere in situazioni di grave dolore fisico, ma già questa pratica si sta estendendo anche a casi di sofferenza psicologica, condizioni, insomma, in cui la libertà di scelta del paziente che viene tanto rivendicata da chi promuove l’eutanasia, è fortemente condizionata dalla sofferenza sopportata e in cui il ruolo del medico potrebbe essere addirittura risolutivo in alcuni casi.

Com’è accaduto a Jeanette Hall, che continua a testimoniare come il suo medico le abbia salvato la vita nel 2000, in un momento di forte depressione, in seguito al suicidio di suo fratello e a una diagnosi di tumore che l’aveva spinta a chiedere al suo medico curante, poco tempo dopo che il suicidio assistito era divenuto legale in Oregon, quale fosse la procedura legale per morire. Ma erano bastate le poche parole di esortazione del suo dottore, che l’aveva invitata a non dare un simile dolore a suo figlio, per farle cambiare idea.

Per sminuire la pericolosità e la portata mortifera di questa pratica, gli attivisti della morte la relegano nell’ambito delle scelte private dell’individuo, ma non è affatto così.

Se è vero che le leggi creano il costume, perché a lungo andare si finisce per percepire ciò che è legale come “accettabile”, allora la legalizzazione di una tale pratica, finisce, come sta accadendo dove è avvenuta, per influenzare pesantemente la mentalità e le decisioni di molti, portando altre persone, in condizioni di sofferenza, a valutare tale possibilità divenuta, tramite una legge, ben accetta dalla morale comune e dalla società. Un inganno nel quale vengono trascinati i medici complici che, pur violando gravemente il giuramento di Ippocrate, la presenterebbero come una forma estrema di pietà.

Lo specchio fedele di questo pericoloso stravolgimento della mentalità sono proprio i sistemi sanitari di quei paesi europei ed extra-europei, in cui il suicidio assistito rientra tra le “cure” a cui il paziente ha diritto. Insomma: il suicidio da gesto estremo si trasforma in un servizio generosamente offerto dallo Stato e in un diritto garantito dalla legge, stravolgendo la realtà dei fatti e il buonsenso stesso.

Dunque più che “libertaria”, la matrice di certe leggi risulta piuttosto “liberticida” se l’unica soluzione che si offre al paziente che soffre è la morte.

Un cambiamento di mentalità che si rivela, in modo lampante, nella pericolosa convinzione che esistano vite più o meno degne di essere vissute rispetto ad altre, sulla base, peraltro, di criteri estremamente soggettivi e dunque variabili e di conseguenza estendibili a dismisura anche ad esempio, a malattie che, seppure invalidanti risultano curabili (si ricordi il caso del piccolo Alfie Evans condannato inesorabilmente a morte dall’Alta Corte britannica che ha definito la sua vita “futile”).

Ma pensiamo anche alla situazione paradossale che si sta verificando attualmente in Olanda, dove la legge sull’eutanasia è ormai approvata da tempo ma che ora sta per essere estesa (a causa del concetto relativo di “sofferenza” e di “vita degna di essere vissuta” utilizzati come criteri di queste scelte sconsiderate) anche ad anziani soli, spesso dopo la morte del coniuge che, oppressi dalla malinconia e dalla solitudine, considerano la loro vita priva di senso. Cittadini che vengono ricambiati dallo Stato, non con un’adeguata assistenza psicologica o con il sostegno della comunità, ma con una veloce iniezione letale.

È proprio il ruolo fondamentale dello Stato nella cura del paziente che viene rivendicato da “Not Dead Yet” un gruppo di attivisti disabili del Regno Unito che si oppone al suicidio assistito e rivendica un più facile accesso alle cure palliative in caso di sofferenza grave, proprio per prevenire scelte estreme.
È chiaro, dunque, che la pratica del suicidio assistito crea una pressione invisibile alla quale i più deboli fanno difficoltà a resistere. Per questo occorre sottolineare più che mai che anche il ricorso al suicidio assistito è un fatto pubblico, con un’importante dimensione comunitaria che ci riguarda tutti e che, pertanto, non può e non deve lasciarci inermi e indifferenti.

Manuela Antonacci

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