02/10/2013

Svizzera, suicidio assistito: una crepa è diventata una voragine

Nel panorama della morte on demand la Svizzera rappresenta un caso a sé: l’eutanasia attiva (omicidio intenzionale allo scopo di accorciare la sofferenza) è punibile per legge anche se è la vittima che la chiede, mentre il suicidio assistito, pur non essendo mai stato legalizzato, è ampiamente praticato nelle varie cliniche private nate per questo scopo. E non solo. Il Paese è pure diventato meta di un fervente “turismo della morte”, alimentato dai cittadini europei degli Stati vicini che si recano in Svizzera per essere aiutati a suicidarsi.

Osserva[1] Rita Marker che vi è un’importante distinzione tra la legislazione vigente in Svizzera rispetto a quella di Oregon, Olanda e Belgio, dove l’eutanasia e/o il suicidio assistito sono esplicitamente permessi per legge ed equiparati a “trattamenti medici”. Secondo il diritto elvetico, “Chiunque per motivi egoistici, induca qualcuno a commettere suicidio o lo assista è punito, se il suicidio è riuscito o tentato, con la detenzione sino a cinque anni o con una pena pecuniaria”. In sostanza, la chiave che ha reso la Svizzera lo Stato con la legge più permissiva riguardo alla morte on demand, sta tutta nella frase “per motivi egoistici”, grazie alla quale il suicidio assistito, pur non essendo legale, non è punibile se si agisce disinteressatamente. In pratica, chi è affetto da una malattia terminale e vuole essere accompagnato al suicidio, deve essere capace di intendere e di volere, deve prendere la decisione in piena autonomia, e, il giorno fissato per la dipartita, essere in grado di suicidarsi da sé. La persona che assiste lo deve fare in maniera disinteressata, limitandosi a fornire i farmaci letali senza intervenire in maniera attiva, altrimenti sarebbe eutanasia, punita per legge.

Rita Marker fa anche notare che, dal momento che la legge elvetica non fa allusioni al fatto che il suicidio assistito sia una pratica medica, implica che l’assistente al suicidio non sia tenuto ad essere un medico per sottrarsi all’azione penale. Invece, ciò che ha reso la Svizzera l’unico Stato al mondo ad avere il “turismo della morte” è il fatto che la legge non ponga vincoli di residenza per l’accesso al suicidio assistito “altruistico”.

Benché la legge sia entrata in vigore nel 1941, il suicidio assistito inizia a diffondersi solo a partire dagli anni ‘80, quando nascono le prime organizzazioni private di aiuto al suicidio, in Svizzera, infatti, l’accompagnamento al suicidio è praticato prevalentemente al di fuori delle istituzioni mediche statali, anche se ultimamente le cose stanno iniziando a cambiare. Attualmente, le organizzazioni private che se ne occupano sono sei. Le più grandi sono Exit (Ds e Adms) e Dignitas, alle quali si aggiungono Ex International, Verein Suizidhilfe e Lifecircle-Eternal Spirit. Le due Exit e Verein Suizidhilfe si occupano solo dei cittadini svizzeri, mentre Dignitas, Lifecircle e Ex International si concentrano in particolare sul servizio agli stranieri. Il Rapporto del Consiglio federale di giugno 2011, intitolato “Cure palliative, prevenzione del suicidio e assistenza organizzata al suicidio”, riepiloga le prerogative delle prime cinque, indicando anche alcuni dati.

Exit DS (Deutsche Schweiz) è stata fondata il 3 aprile 1982, e con i suoi 52mila membri sparsi in tutta la Svizzera, è l’organizzazione di aiuto al suicidio più importante del Paese. In base all’art. 2 del suo statuto possono accedere al suicidio assistito solo coloro che hanno ricevuto una prognosi priva di speranza, che hanno dolori insopportabili o menomazioni insostenibili. Nel 2009 Exit DS ha accompagnato al suicidio 217 persone, delle quali: 93 affette da cancro, 47 da polimorbilità, 9 da malattie croniche, 5 da sclerosi laterale amiotrofica, 3 da emorragia cerebrale, 7 da sclerosi a placche, 6 da morbo di Parkinson, 2 da malattie psichiche, 17 da dolori cronici, 2 da un inizio di demenza, 9 da malattie polmonari, 3 da polineuropatie, 3 da tetraplegie, 3 da malattie agli occhi, 8 da altre patologie. La sostanza utilizzata per il suicidio è il pentobarbital sodico[2] (NaP). Se il suicidante è in grado di farlo, può bere direttamente il NaP, altrimenti si effettua una flebo o si applica una sonda nasogastrica. In questi ultimi due casi sarà sempre la persona ad avere il controllo effettivo dell’azione, poiché spetterà a lei, e solo a lei, azionare il processo di iniezione.

Exit ADMD (Association pour le droit de mourir dans la dignité) è l’omologa romanda di Exit Ds, fondata il 23 gennaio 1982, conta attualmente più di 15mila membri. Le modalità del suicidio assistito sono le stesse: cocktail da bere, altrimenti flebo o applicazione di sonda nasogastrica. La domanda di “autoliberazione” dell’aspirante suicida viene accolta solo se la richiesta è seria e reiterata e se il richiedente è in grado di intendere e di volere, soffre di una malattia incurabile con una prognosi letale, o di un’invalidità permanente, e pertanto patisce sofferenze fisiche e psichiche intollerabili. L’associazione precisa che i criteri di invalidità comprendono l’impossibilità permanente di compiere in modo autosufficiente atti quotidiani come: vestirsi, lavarsi, andare a letto, mangiare, curare la propria igiene personale, andare in bagno, spostarsi o essere affetto da sordità o cecità.

La Dignitas è stata fondata il 17 maggio 1998 dall’avvocato Ludwig Minelli, in seguito ad una scissione di Exit avvenuta per gravi dissensi interni. L’associazione ha sede a Forch (Zurigo) e conta circa 5.700 membri, la maggior parte dei quali cittadini stranieri. Il suo obiettivo è di garantire ai propri iscritti una vita e una morte dignitose e di trasmettere questi valori ad altre persone. L’associazione procura ai membri un testamento biologico giuridicamente valido e garantisce loro assistenza al suicidio da parte di personale qualificato. Gli aderenti che chiedono la preparazione al suicidio assistito devono versare 3mila franchi (circa 2.400 euro) per le spese amministrative, coloro che intendono anche essere accompagnati nella fase terminale della propria vita devono pagare altri 3mila franchi sempre per le spese amministrative, e quanti delegano a Dignitas l’incombenza di sbrigare le formalità di prassi presso i servizi funerari e dello stato civile devono corrispondere un importo supplementare di 1.500 franchi (circa 1.200 euro). Per i membri che hanno una situazione finanziaria delicata sono previsti sconti sulla quota di adesione (200 franchi, circa 160 euro) e sulle spese supplementari. In base all’art. 4 dello statuto, i soci hanno il diritto di chiedere un accompagnamento al suicidio qualora intendano porre fine a sofferenze inutili o nel caso in cui continuare a vivere sarebbe per loro insopportabile. Dal 2001, il personale della Dignitas che assiste ai suicidi non lo fa più a titolo volontario. Infatti, dato l’aumento consistente delle domande di suicidio assistito, l’associazione ha iniziato ad elargire agli assistenti, oltre al rimborso delle spese, anche un compenso per occuparsi del malato, per i colloqui con quest’ultimo e con i suoi congiunti, e per l’assistenza vera e propria al suicidio. I pazienti di Dignitas muoiono ingerendo la soluzione letale a base di pentobarbital.

Ex International di Berna è stata fondata nel 1996. Nel Rapporto del consiglio federale, si legge che il sito internet dell’associazione fornisce poche informazioni, tuttavia – secondo un articolo di Zeit Online -, pare conti circa 700 membri, quasi tutti di nazionalità tedesca. Secondo le dichiarazioni della sua presidente, i membri non devono pagare nessuna quota e chi si occupa dell’aiuto al suicidio riceve solo un piccolo rimborso spese. Possono ricorrere al suicidio assistito gli iscritti affetti da una malattia insopportabile molto probabilmente letale, e tutti i costi della pratica gravano sul suicidario.

L’associazione Verein Suizidhilfe è stata fondata il 17 gennaio 2002 a Zurigo dallo psichiatra Peter Baumann (già membro di Exit DS), con il proposito di estendere in modo meno restrittivo l’aiuto al suicidio ai malati psichici. Nel 2007 Baumann è stato condannato per omicidio intenzionale per aver aiutato a suicidarsi alcune persone incapaci di discernimento. Nello statuto si precisa che l’associazione sviluppa le conoscenze nell’ambito di metodi di suicidio dignitosi che rendono superfluo l’intervento di un medico. Nel Rapporto del 2011, il consiglio federale osserva che non esistono altri dati ufficiali, tanto meno sul numero dei suoi membri e dei suicidi assistiti praticati. L’ultima nata in ordine di tempo è Lifecircle-Eternal Spirit, fondata nel 2011 a Basilea da Erika Preising, 54 anni. I suicidi assistiti avvengono in un monolocale preso in affitto, che lei e il fratello hanno ristrutturato. La Preisig infila l’ago in vena e, prima che il suicidario azioni in maniera autonoma il congegno di plastica che apre il rubinetto della flebo contenente il pentobarbital sodico, gli rivolge come da protocollo tre domande, chiedendogli il nome, la data di nascita, e se è consapevole di quel che accadrà quando la valvola sarà aperta, poi la procedura può iniziare. Il fratello filma tutta la scena: il video sarà la prova da mostrare alla polizia a decesso avvenuto, per far vedere che tutto è avvenuto secondo legge. Dopo il decesso i Preisig chiamano il procuratore capo di Basilea e il medico legale, e si firmano i documenti che attestano il decesso. Il suicidio costa 10mila franchi svizzeri (circa 8mila euro), compresi i costi della cremazione.

In Italia, a fare da tramite con le cliniche elvetiche che offrono il servizio agli stranieri, in particolare con la Dignitas, c’è l’associazione Exit Italia, fondata a Torino il 7 settembre 1996 da Emilio Coveri, 62 anni, ex manager della Fiat. Con l’adesione ad  Exit Italia si ottiene un testamento biologico legalmente valido che, in caso di emergenza, costei si incarica di portare avanti dal punto di vista legale. L’associazione fornisce anche un servizio di consulenza e precisa che l’offerta di suicidio assistito è vincolata alla sottoscrizione dell’adesione a socio. Riferisce[3] Coveri che gli italiani andati finora a morire in Svizzera “sono almeno una trentina”, ma alcuni hanno preso contatti direttamente sul posto. Gli iscritti ad Exit Italia sono “a oggi, 1.586”, con “le iscrizioni che aumentano ogni anno del 20%”. La persona che vuole essere accompagnata al suicidio “manda le sue cartelle cliniche, che vengono vagliate da una équipe di medici svizzeri. Se la malattia è irreversibile, degenerativa, e insomma è sicuro che non c’è nulla da fare, la domanda viene accettata”. Poi “la persona fissa una data, si va uno o due giorni prima e si soggiorna in albergo. Qui vieni visitato da un medico che ha il dovere di dissuaderti. Il 40% di quelli che arrivano in albergo il giorno prima della morte programmata ci ripensa e torna indietro”. Gli altri, quelli che sono convinti, vanno avanti: “Dopo l’ultima notte in albergo, al mattino ti portano nella clinica. Lì, di nuovo, il medico ti chiede se sei proprio sicuro e, se non torni indietro, vai nella stanza, ti metti a letto e aspetti il medico. Ti danno un calmante e un farmaco per assimilare meglio la pozione finale. Poi ti filmano e tu devi dire che è una tua libera scelta, per evitare problemi legali di qualche parente che può intentare una causa. Poi ti danno un bicchiere con il sonnifero e il cloruro di potassio. Lo devi bere da solo, nessuno ti può aiutare. Se non puoi muovere le mani, ti danno una cannuccia. Dopo tre minuti ti addormenti e dopo cinque il cuore si ferma”. Quindi “il personale della clinica chiama la polizia e il medico legale, tutto viene registrato e si chiude la pratica. Il corpo viene portato al forno crematorio e le ceneri vengono consegnate alla persona indicata dal suicida”. Il servizio completo costa “circa 8mila euro: apertura della pratica, il medico che deve valutare, le eventuali traduzioni, i farmaci, la clinica, il trasporto della salma, la cremazione, l’albergo”.

Due sono, quindi, le condizioni fondamentali affinché il suicidio assistito non violi la legge, non devono sussistere motivi egoistici ed il paziente suicidario deve darsi la morte da se stesso, senza l’aiuto di nessuno. Ciò implica che l’assistente non possa intervenire in maniera attiva se non vuole incorrere in una condanna per aver praticato l’eutanasia, vietata e punita per legge. Al riguardo lo stesso Coveri è molto chiaro, quando puntualizza che “se il paziente non riesce a bere da solo il composto, se ha paura, se vuole essere aiutato, i medici sono inflessibili: meglio tornare in Italia. Loro non uccidono per conto dell’aspirante suicida”[4]. Ora, a parte il fatto che procurare ad una persona i mezzi che utilizzerà per suicidarsi da sé, anche se non si può definire eutanasia, si può di certo circoscrivere nell’ambito della cooperazione, una cooperazione al suicidio peraltro decisiva, visto che in mancanza di quei mezzi (cocktail di farmaci letali, inserimento della flebo in vena o della sonda nasogastrica) l’aspirante suicida sarebbe impossibilitato ad uccidersi, e forse neanche lo farebbe. Tuttavia, anche se mettiamo da parte questa “sottigliezza”, una perplessità nasce ugualmente spontanea: e se la medicina letale fallisce? Abbiamo visto che non tutte le persone reagiscono allo stesso modo ai farmaci che procurano la morte, in Oregon, per esempio, dove i suicidi assistiti avvengono, come alla Dignitas, mediante ingestione di farmaci mortali, ci sono stati casi andati drammaticamente storti, con pazienti che sono vissuti dalle 7,5 alle 31 ore dopo l’assunzione, come ha ricordato Kenneth R. Stevens, della Physicians for Compassionate Care Educational Foundation. Ezekiel Emanuel, bioeticista americano e membro dell’Hastings Center, ha fatto presente al riguardo come le statistiche mostrino che l’assunzione di farmaci letali prolunghi l’agonia dei pazienti nel 15% dei casi[5]. Mentre in Belgio, come ha puntualizzato Paul Perdieus, Responsabile della qualità della Multipharma, il kit per l’eutanasia predisposto dalla casa farmaceutica, contiene un’apposita medicina “di riserva” proprio per far fronte a quel 10% di casi in cui la somministrazione standard letale fa “cilecca”.

Inoltre, uno studio[6] pubblicato sul New Englan Journal of Medicine, che ha analizzato i dati provenienti da due studi su eutanasia e suicidio assistito in Olanda, ha rilevato complicazioni e problemi per entrambe le pratiche eutanasiche, con percentuali più elevate di fallimento proprio nell’esecuzione dei suicidi assistiti. Lo studio ha scoperto che con le eutanasie si sono verificate “complicazioni e problemi con il completamento rispettivamente nel 3 e 6% dei casi”, mentre con i suicidi assistiti “si sono verificate complicanze nel 7% dei casi, e problemi con il completamento (un tempo più lungo del previsto per la morte, fallimento nell’indurre il coma, o induzione del coma seguito dal risveglio del paziente) nel 16% dei casi”. A causa di questi fallimenti i medici hanno quindi deciso “di somministrare un farmaco letale in 21 casi di suicidio assistito (18%) che sono perciò diventati casi di eutanasia. Le ragioni di questa decisione – precisa lo studio – hanno incluso problemi con il completamento (12 casi) e l’incapacità del paziente di prendere tutti i farmaci (5 casi)”.

Ora, se in Olanda un suicidio assistito diventa eutanasia, diciamo che non c’è problema, poiché l’eutanasia è legale, ma in Svizzera, dove l’eutanasia è vietata, qual è l’iter che si segue in caso di complicanze o problemi di completamento? Si lascia morire il paziente dopo ore di agonia? Gli si consegna un’altra mistura mortale se non entra in coma o se si risveglia? E se non riesce ad assumere tutto il cocktail letale ma solo una parte, cosa si fa? Visto che, in tale circostanza, non ci sembra plausibile che l’assistente possa consigliare all’aspirante suicida indisciplinato di lasciar perdere, invitandolo a ritornare nel suo Paese, dato che si trova nel bel mezzo di una procedura mortifera iniziata ma non portata a termine. Può essere verosimile che in trent’anni di suicidi assistiti praticati in Svizzera, contrariamente a ciò che è avvenuto e avviene negli altri Stati, sia sempre andato e vada tutto liscio come l’olio? Che non si sia mai verificato, nemmeno una volta, un suicidio assistito in cui qualcosa non è andato come previsto?
In attesa di risposte che, probabilmente, non arriveranno mai, veniamo ora al cosiddetto “pendio scivoloso”, perché anche in Svizzera, al pari di Belgio e Olanda, il copione si ripete. È sufficiente dare un’occhiata alle persone che Exit DS ha accompagnato al suicidio nel 2009, per rendersi conto di quanto siano diventati ampi in Svizzera i confini per usufruire dell’aiuto al suicidio, che dai malati terminali si sono allargati ai malati non terminali, poi ai depressi, fino a chi è soltanto stanco di vivere.

La Exit ha rinunciato nel 2004 alla moratoria che s’era imposta, iniziando ad includere nell’assistenza al suicidio anche le persone con capacità di discernimento desiderose di liberarsi della propria sofferenza psichica. Ma, in quell’occasione, costei non ha fatto altro che adeguarsi ad una tendenza già in atto, poiché sia la Dignitas che Verein Suizidhilfe stavano già accompagnando al suicidio anche questa categoria di persone[7]. Nel febbraio 2011 è stata, invece, la Corte suprema ad equiparare in una sentenza i gravi disturbi mentali a quelli fisici, sostenendo che: “Seri disordini mentali, incurabili e permanenti, possono causare sofferenze simili a quelle fisiche”[8]. Significativo al riguardo è il caso di Andrè Rieder, un uomo di 56 anni afflitto da sindrome maniaco-depressiva, che ha contattato la Exit nel marzo 2010 e, otto mesi dopo, è stato accompagnato alla morte. Gli ultimi giorni della sua vita sono stati filmati, diventando poi un documentario trasmesso alla televisione svizzera tedesca. L’ultimo giorno della sua vita – si vede nel filmato – Rieder si reca al ristorante con il suo migliore amico, poi va al museo a vedere una mostra su Picasso e, infine, alle sei di sera, entra nella clinica di Zurigo, per bere il cocktail mortale e suicidarsi, non perché soffra di una malattia terminale, ma solo perché si è semplicemente stancato di vivere.

Accompagnare alla morte un malato di mente, una persona depressa, è delicato, ha riconosciuto Jerome Sobel, presidente di Exit ADMD, tuttavia – è stata la sua motivazione -: “Alcune malattie psichiche sono come un cancro dell’anima e possono risultare incurabili”[9]. Depresso era anche l’italiano Lucio Magri, cofondatore del giornale Il Manifesto, scivolato in un profondo sconforto dopo la morte della moglie. Anche Magri non soffriva di alcuna malattia mortale, aveva solo deciso di morire perché riteneva non ne valesse più la pena, così il 28 novembre 2011 si è recato alla Dignitas per farsi accompagnare al proprio suicidio. E non soffriva di una malattia terminale nemmeno l’ex magistrato calabrese Pietro D’Amico, come ha rivelato l’autopsia chiesta alla magistratura svizzera dalla figlia e dalla vedova del magistrato. D’Amico si era iscritto a Exit Italia nel 2007 ed è morto per suicidio assistito nel monolocale della Lifecircle ad aprile 2013.

In Inghilterra hanno, invece, fatto molto discutere le vicende di Daniel James e Craig Ewert, entrambi morti suicidi alla Dignitas. Daniel James, 23 anni, giocatore di rugby, si è suicidato nella clinica di Zurigo il 12 settembre 2008, perché, diciotto mesi prima, nel corso di una sessione di allenamento, aveva subìto una grave lesione spinale che l’aveva lasciato paralizzato dal torace in giù, con poco controllo e sensibilità alle mani e senza prospettive di miglioramento. Craig Ewert, 59 anni, era un professore universitario in pensione, colpito da sclerosi laterale amiofrofica. È morto davanti agli occhi delle telecamere della rete televisiva Sky News, dopo aver bevuto il pentobarbital sodico con la cannuccia.

Questo ampliamento dei confini per accedere al suicidio assistito è stato messo in luce anche da uno studio realizzato dal Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica (FNS), intitolato “Ultima scelta: suicidio accompagnato e turismo della morte in Svizzera”, che ha rilevato come in Svizzera siano sempre di più le persone stanche di vivere, non sofferenti di malattie incurabili, che si rivolgono alle organizzazioni di aiuto al suicidio[10]. L’analisi si è basata su 421 decessi di questo tipo, registrati dall’Istituto di medicina legale dell’università di Zurigo tra il 2001 e il 2004, di cui 274 attuati da Dignitas e 147 da Exit. I ricercatori diretti da Georg Bosshard, medico responsabile di etica clinica all’ospedale universitario di Zurigo, hanno cercato di chiarire quale tipologia di persone si rivolge alle organizzazioni per il suicidio e per quali motivi. Interrogativi che finora erano rimasti senza risposte, nonostante la Svizzera si collochi tra i principali Paesi in cui viene praticato il suicidio assistito. È così emerso che le donne ad aver scelto questa strada erano quasi il doppio degli uomini: il 65% da Exit e il 64% da Dignitas. La ricercatrice e sociologa Susanne Fischer, ha precisato che “questa quota è legata all’aumento della proporzione delle persone sopra gli 85 anni e di coloro che non sono colpiti da una malattia incurabile che chiedono di morire”, e ha ricordato che già negli anni ‘90 Exit aveva manifestato la volontà di intensificare l’assistenza al suicidio agli anziani che non hanno più voglia di vivere. Lo studio ha riscontrato che nel periodo 1990-2000 la quota di persone sopra gli 85 anni stanche di vivere che a Zurigo hanno chiesto ad Exit l’aiuto a morire era del 16%, quota che nel periodo 2001-2004 è balzata al 36%. Nonostante l’impennata di questi casi – ha aggiunto la sociologa -, l’80% di quelli trattati dalle due organizzazioni tra il 2001 e il 2004 riguardava comunque la fascia d’età tra i 45 e gli 84 anni.

In generale è fortemente progredita la proporzione di coloro che si sono fatti aiutare a morire che non soffrivano di alcuna malattia incurabile: dal 22% degli anni ‘90 la percentuale è balzata al 34% nel periodo 2001-2004. Fra questi suicidi, le motivazioni indicate con più frequenza sono state le sofferenze dovute a reumatismi o a dolori cronici. La Fischer ha, perciò, osservato che la “stanchezza di vivere e [le] cattive condizioni generali di salute prendono sempre più importanza fra i motivi citati dagli anziani che chiedono assistenza al suicidio in Svizzera”. Lo studio ha, infine, rilevato che entrambe le organizzazioni hanno aiutato a suicidarsi anche dei malati psichici: 12 persone in totale. Un fatto che suscita forti critiche da parte di chi mette in dubbio la facoltà degli operatori delle organizzazioni di accertare che i “candidati” al suicidio abbiano capacità di discernimento, una condizione, quest’ultima, indispensabile per legge.

Ma lo slittamento lungo il pendio scivoloso non si ferma qui, le maglie del suicidio assistito si allargano ulteriormente quando le organizzazioni private di assistenza al suicidio – che finora avevano realizzato l’accompagnamento recandosi al domicilio dei propri iscritti (nel caso di cittadini svizzeri) o in apposite stanze attrezzate per lo scopo (nel caso di persone provenienti dall’estero) -, iniziano a trovare spazio anche all’interno degli ospedali pubblici e delle case per anziani. Dal 1 gennaio 2006 l’ospedale universitario di Losanna diventa il primo ospedale elvetico ad aprire le porte ad Exit, con l’obiettivo di accompagnare al suicidio i pazienti terminali troppo malati per essere dimessi, a condizione che abbiano espresso in modo persistente il desiderio di morire, che siano sani di mente, che soffrano di un male incurabile, e che siano in grado di compiere di propria mano il gesto finale[11]. A giugno 2012 tocca, invece, al cantone di Vaud esprimersi al riguardo. L’elettorato vodese approva l’accesso al suicidio assistito sia per le persone ricoverate negli ospedali pubblici, che per coloro che risiedono nelle case per anziani finanziate da enti pubblici. Adesso le case di riposo, le cliniche e gli ospedali del cantone di Vaud finanziati dallo Stato, non potranno più rifiutare al loro interno le organizzazioni private per l’assistenza al suicidio, se un paziente o un ospite richiede per se stesso il loro intervento[12].

C’è, infine, da considerare anche il fatto che, trent’anni di applicazione del suicidio assistito “altruistico” in Svizzera, sono riusciti a trasformare la richiesta di aiuto a morire in un evento normale, permettendo alla “cultura della morte” di radicarsi profondamente tra la popolazione e nel sentire comune. Basta vedere come si sono espressi nel 2011 i cittadini del cantone di Zurigo (il più popolato della Svizzera), in occasione di due iniziative popolari mosse contro il suicidio assistito. In un caso si voleva chiedere alle Camere federali di rendere punibile qualsiasi forma di istigazione e aiuto al suicidio: l’iniziativa è stata spazzata via con l’84,5% di no. Nell’altro caso si mirava a contrastare il “suicidio turistico”, prevedendo per l’accesso almeno dieci anni di residenza nel cantone: l’iniziativa è stata bocciata con il 78,4% di voti contrari. Pare, insomma, che i cittadini zurighesi, oltre a considerare il suicidio assistito un “diritto” ormai acquisito, non siano nemmeno turbati dal fatto che il loro Paese detenga il poco edificante primato di unico Stato al mondo ad avere il “turismo della morte”.

La Svizzera ci insegna che non è solamente l’esplicita legalizzazione delle pratiche eutanasiche ad aprire la strada in maniera sempre più incisiva alla cultura della morte, ma anche la non punibilità secondo determinate condizioni (agire disinteressatamente). Ci insegna che è sufficiente lasciare aperto giusto uno spiraglio e, tempo qualche anno, la porta sarà completamente spalancata. Che basta una crepa nel divieto, come la possibilità di essere aiutati al suicidio se sussistono “motivi non egoistici”, e pian piano quella crepa si allargherà, si ingrandirà, si dilaterà fino a diventare una voragine che ingloba tutto: cancro, polimorbilità, malattie croniche, disabilità, malattie degenerative, malattie polmonari, dolore cronico, reumatismi, sordità, cecità, malattie psichiche, depressione e stanchezza di vivere, purché l’aspirante suicida abbia almeno un dito funzionante per azionare una valvola, o la capacità di deglutire, anche usando una cannuccia, se ha perso l’uso delle mani.

Se si vuole evitare che le pratiche mortifere si propaghino nella società, trasformandosi pian piano in normalità o, peggio ancora, in diritti, bisogna provvedere a contrastarle senza se e senza ma, senza scendere a compromessi, senza giochi al ribasso con ripiegamenti sul sinistro “male minore”, e senza sacche di impunità, perché – la Svizzera insegna – non punire è, di fatto, come legalizzare.

Note:

[1] Rita L. Marker, “Assisted Suicide & Death with Dignity: Past, Present & Future”, Part III, www.patientsrightscouncil.org/site/rpt2005-part3.

[2] L’anestetico veterinario propagandato anche dal dottor morte australiano Philip Nitschke quale elemento base della sua “peaceful pill”, che in Messico, il Paese dove costui invita le persone a procurarselo, è venduto legalmente nei negozi di animali con il nome di Nembutal.

[3] Fabrizio Paladini, “Exit strategy”, Panorama, 22 maggio 2013.

[4] Gabriele Villa, “La clinica che guarisce dalla vita con la morte”, www.ilgiornale.it, 30 novembre 2011.

[5] Citato da: Loretta Bricchi Lee, “Suicidio assistito, si amplia il fronte del no”, Avvenire, 4 novembre 2012.

[6] Johanna H. Groenewoud et al, “Clinical problems with the Performance of euthanasia and Physician-Assited Suicide in the Netherlands”, New Englan Journal of Medicine, 24 febbraio 2000, 342: 551-556.

[7] Swissinfo e agenzie, “Exit rinuncia alla moratoria che s’era imposta”, www.swissinfo.ch, 11 novembre 2004.

[8] “Suicidi assistiti, perché in Svizzera”, www.affaritaliani.it, 30 novembre 2011.

[9] Roberto Bonizzi, “Svizzera choc, televisione filma e manda in onda l’eutanasia di una persona malata di depressione”, www.ilgiornale.it, 18 febbraio 2011.

[10] Renat Kunzi, “Suicidi assistiti: un fenomeno molto femminile”, www.swissinfo.ch, 10 novembre 2008.

[11] Swissinfo, Adam Beaumont e agenzie, “Gli ospedali dibattono sull’eutanasia”, www.swissinfo.ch, 19 dicembre 2005.

[12] Sonia Fenazzi, “Vaud disciplina l’accompagnamento alla morte”, www.swissinfo.ch, 17 giugno 2012.

di Lorenza Perfori

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