11/11/2017

Un’infermiera che era abituata a far morire...

Su Nurse24.it , un portale dedicato a chi desidera intraprendere o ha intrapreso la professione di infermiere, è apparsa un’intervista alla nostra amica, Kristine Hodgetts, l’infermiera canadese che abbiamo invitato a dare la sua testimonianza a Roma, nel giugno scorso, e che si batte per la vita e contro ogni forma di eutanasia, dopo aver vissuto in prima persona l’esperienza di chi “doveva” accelerare la morte dei pazienti...

«Ho iniziato la mia carriera nelle forze armate canadesi – racconta Kristine – per poi trasferirmi in Arabia Saudita con mio marito, dove sono stata nominata capo infermiera presso le forze di sicurezza. Una volta tornata in Canada ho lavorato in diverse aree, fino all’assunzione come supervisore presso una casa di cura di lungodegenza.

Lì, in alcuni casi, la morte veniva accelerata, usando morfina e sospendendo cibo, acqua e qualsiasi intervento medico curativo. Purtroppo – continua – questo portava il paziente a morire di fame e disidratazione e molti altri problemi.

Come nel caso di un’anziana donna che ci ha messo nove giorni prima di lasciare questa vita. Tutto questo finché un giorno mi ritrovai di fronte a un foglio di carta lasciato lì per caso da una collega dove c’era scritto “Che cosa facciamo qui?”. Da quel momento ho aperto gli occhi. Ho capito che le nostre “pratiche un po’ standard” nell’ambito della legge non erano né etiche né umane. Ci eravamo allontanati dalla nostra missione, senza malizia, senza intenzione. Ci sentivamo di fare la cosa giusta, ma in realtà stavamo negando ai nostri pazienti il ​​loro diritto a una morte naturale.

A quel punto Kristine ha dovuto prendere una posizione. E l’ha fatto, lasciando il suo lavoro.

C’era una frase che mi tormentava sempre “Stiamo aiutando qualcuno a morire o stiamo facendo morire qualcuno?”. Avrei solo voluto porgermi questa domanda molto prima nella mia carriera. Mi sono sentita colpevole per anni e in parte mi sento ancora così, perché noi infermieri abbiamo la responsabilità di fornire assistenza ai nostri pazienti in tutte le fasi della vita. Curare significa rispettare il diritto di vivere la propria vita fino alla sua fine naturale. Curare significa fornire tutto ciò di cui siamo in grado per alleviare le sofferenze fino alla morte, non provocare la stessa».

Sebbene la decisione di attivare questa pratica arrivasse prevalentemente dal medico, anche i famigliari e gli infermieri facevano la loro parte. Un infermiere non poteva opporsi legalmente alla volontà del medico, però è chiaro che quest’ultimo teneva conto delle loro considerazioni e osservazioni. Ed è questo che ha contribuito ad aumentare il senso di colpa in Kristine.

«Oggi come oggi posso dire di avere partecipato all’uccisione di molti pazienti
Ma il compito dell’infermiere non è questo – spiega -. Al contrario, si tratta di un mandato ben definito: promuovere la salute, la cura e il trattamento delle condizioni sanitarie mediante terapie di supporto, preventivo, terapeutico, palliativo e riabilitativo per raggiungere o mantenere le funzioni ottimali. Anticipare la morte è in conflitto diretto con questa affermazione e con le pratiche etiche di base del nostro mestiere».

Quando Kristine è finita in coma a seguito di un ictus, probabilmente, se non fosse stato per la determinazione e l’amore del marito, sarebbe stata lei stessa vittima di eutanasia.

«Premetto che – ricorda – durante il ricovero ho ricevuto cure eccellenti. La parte spaventosa è che, se non avessi avuto mio marito o un avvocato, considerando che l’eutanasia è legale in Canada, sarei probabilmente stata una di queste vittime».

Oggi Kristine non ammette l’eutanasia in nessun caso, perché come spiega la sofferenza può essere alleviata attraverso le cure palliative con l’intento di far soffrire meno possibile il paziente, senza per forza farlo morire. Per fortuna ho il privilegio e la responsabilità di condividere le mie esperienze con il mondo. Grazie alla mia nomina di vicepresidente della Coalizione per la prevenzione dell’eutanasia, sto girando il mondo per aiutare le persone a capire che esistono altre possibilità. Di recente – dice – sono stata anche in Italia tramite l’associazione ProVita per condividere la mia storia e rispondere alle domande dell’ufficio stampa esteri e del Vaticano. L’obiettivo è anche quello di aiutare per vie legali i membri delle famiglie che non sono d’accordo con altri parenti, che invece vorrebbero accelerare la morte dei propri cari per avere accesso ai soldi e alle proprietà. Il mio intento adesso è dunque creare consapevolezza nelle persone».

Paola Botte


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