12/04/2013

Washington e North Dakota, le frontiere delle culture wars

In America non si fa che discutere della salute del movimento pro vita. Le copertine dei giornali e le leggi

 A gennaio il settimanale Time ha dedicato una copertina al quarantesimo anniversario della Roe v. Wade, la sentenza della Corte suprema che nel 1973 ha legalizzato l’aborto negli Stati Uniti. La tesi dell’articolo portante, firmato da Kate Pickert, era semplice: dopo la grande vittoria del movimento pro choice a livello federale, i sostenitori dell’aborto hanno inanellato una lunga serie di sconfitte nei singoli stati, dove nel tempo sono state approvate leggi che hanno tendenzialmente limitato e ostacolato il ricorso all’interruzione di gravidanza. Il lungo viaggio della cronista partiva da una clinica di Fargo, nel North Dakota, l’unica dello stato che offre alle donne la possibilità di abortire. Davanti alla Red River Women’s Clinic si sono assiepate venerdì 5 aprile 150 persone, sotto la guida di Joseph Goering, il vicario generale della diocesi di Fargo. L’atmosfera di raccoglimento del Venerdì santo era punteggiata dal giubilo per una legge firmata la settimana scorsa dal governatore repubblicano Jack Dalrymple che vieta l’aborto dal momento in cui gli strumenti medici rilevano il battito cardiaco del feto, generalmente attorno alla sesta settimana di gravidanza. La misura, che entrerà in vigore il 1° agosto, prevede anche che i medici che conducono l’aborto chirurgico siano accreditati presso un ospedale locale, clausola che impedisce alle cliniche private di arruolare dottori che vengono da oltreconfine per operare. Sei impiegati della clinica vengono da Minnesota e Colorado.

Il direttore della Red River Women’s Clinic, Tammi Kromenaker, è certo che la legge sarà presto revocata in qualche aula di tribunale in nome della Costituzione e promette che farà “di tutto per continuare a offrire servizi alle donne della regione. L’aborto non sarà cancellato tanto facilmente”. La fragilità della legge non sfugge nemmeno al governatore che l’ha firmata, il quale dice che la “questione aperta” della costituzionalità non toglie che quello votato dal Congresso statale sia un atto legittimo per mandare un messaggio forte intorno a quell’invisibile linea di demarcazione che divide l’America. La situazione del North Dakota ricorda quella dell’Arkansas, lo stato che ha approvato una legge che vieta l’aborto a partire dalla dodicesima settimana. Lo spostamento del termine è piuttosto significativo: gli stati più restrittivi permettono l’interruzione di gravidanza non oltre la diciottesima settimana, e soltanto a certe condizioni. Un tentativo simile era stato fatto anche in Mississippi, attraverso un referendum che poi non ha ottenuto la maggioranza dei voti. Gli sponsor della consultazione popolare volevano introdurre la decisiva clausola della “personhood”, che difende la vita a partire dal momento del concepimento.

La vicenda del North Dakota ha la forza della rappresentazione simbolica. Non è certo in un “red state” conservatore che il movimento pro choice spera di ottenere vittorie legali roboanti, ma la disputa di Fargo è il racconto della polarizzazione del dibattito attorno alla vita. Invece di aumentare l’area di intersezione, gli insiemi politici e culturali che si fronteggiano tendono ad allontanarsi fra loro. La Roe v. Wade ha rotto un argine fondamentale, ma chi pensava che il dibattito sulla vita sarebbe scivolato sul piano inclinato della secolarizzazione montante deve ricredersi. E lo stesso vale, a parti rovesciate, per chi aveva scommesso su una reazione imperiosa del pensiero tradizionale di fronte alla legittimazione dell’aborto come pratica ordinaria.

Contro la “primavera conservatrice”
Per ogni governatore che firma una legge restrittiva sull’aborto, da qualche parte in America c’è un Congresso statale che vota per semplificare il ricorso all’interruzione di gravidanza. Lo stato di Washington è il doppelgänger dello spirito pro life che soffia in Dakota. Lo stato del nord-ovest è l’unico in America che non ha dovuto aspettare la Roe v. Wade per avere aborti legali. Un referendum del 1970 ha sdoganato la pratica, e da allora i progressisti dello stato portano quella vittoria appuntata sul petto come un indelebile punto d’onore. Trovare una clinica che offre l’aborto nello stato è un’operazione semplicissima, e molto spesso il servizio è coperto di default dalle assicurazioni sanitarie. Ma per contrastare quella che chiamano la “primavera conservatrice”, i legislatori della capitale, Olympia, hanno introdotto una legge che obbliga le compagnie assicurative che offrono piani per la copertura della gravidanza a rimborsare anche spese per un’eventuale interruzione.
I deputati che a febbraio hanno votato la misura ne fanno una questione di “parità riproduttiva” (il disegno di legge si chiama appunto Reproductive Parity Act) e gli argomenti liberal tendono a equiparare, agli occhi della legge, la gravidanza all’aborto. Entrambe le opzioni devono essere tutelate allo stesso modo dallo stato e sostenute dalle assicurazioni private, secondo un principio sdoganato dalla riforma sanitaria di Barack Obama: nell’assetto obamiano i provider di polizze assicurative si muovono in uno spazio di mercato rigidamente controllato dallo stato. La maggioranza dei senatori di Washington ha dichiarato in una lettera di essere favorevole alla parità riproduttiva votata alla Camera e una commissione parlamentare ha ascoltato le ragioni di sostenitori e oppositori del disegno di legge. I 250 spettatori del dibattito si sono schierati ai due lati della sala con coccarde e cartelli di segno opposto, corifeo perfetto per la rappresentazione che andava in scena.
La senatrice repubblicana Randi Becker ha spiegato che Washington non ha nessun bisogno di una nuova legge, perché “tutte le assicurazioni sanitarie dello stato coprono l’interruzione di gravidanza”. La battaglia culturale e politica d’America si articola anche attraverso il linguaggio dei simboli e delle manovre tattiche.

di Mattia Ferraresi

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