08/04/2019

Aborto: che fine fa il diritto del più debole?

Uno dei meriti che difficilmente si possono negare al Congresso Mondiale delle Famiglie è quello di aver risollevato un dibattito sull’aborto da troppi anni decisamente assopito. È successo anche grazie al leader del Family Day, Massimo Gandolfini e al presidente del Wcf Verona Toni Brandi che, di quella stessa legge, hanno denunciato il sostanziale fallimento, con milioni di bambini uccisi e soltanto 200mila salvati, pur soffermandosi sulla prima parte della legge e quindi concentrandosi sulla prevenzione che si può e deve attuare. Anche la presenza dei piccoli feti di plastica, riprodotti qualche anno fa per una campagna di Pro Vita, è riuscita a sollevare un polverone.

Perché parlare di aborto, a più di quarant’anni dalla sua depenalizzazione in Italia, fa ancora così tanto scaldare gli animi? In primo luogo, perché si tocca l’argomento della vita umana nel suo concepimento, stimolando le delicatissime corde della sensibilità più profonda di ogni uomo e donna. Di fronte al miracolo della vita o alla tragedia della morte, misteri che vanno al di là di ogni umana comprensione, indipendentemente dalle opinioni che si possono avere, c’è solitamente un sacro timore. Il desiderio di maternità e di paternità è presente in chiunque, anche in chi pensa che il concepito ancora non sia una persona. Anche tra le donne che ritengono l’aborto un diritto, è altissima la percentuale di quelle che, personalmente, mai lo praticherebbero.

Eppure, se ci facciamo caso, nonostante nel nostro Paese le donne che hanno abortito siano come minimo qualche milione, è molto difficile che qualcuna di loro venga allo scoperto e confidi pubblicamente la sua esperienza. Le poche che l’hanno fatto, hanno sempre parlato di un’esperienza negativa, quando non terrificante, che spegne il sorriso e che segna indelebilmente l’intera vita. La maggior parte delle donne che hanno cambiato idea, diventando delle pro life, sono proprio quelle che si sono pentite del loro aborto.

Nonostante tutto questo, ancora si riscontra una fortissima resistenza intorno a qualunque tentativo di messa in discussione di quella legge e persino della sua applicazione in chiave pro vita, attraverso la prevenzione e i consultori. I diritti della madre e del nascituro, pur previsti e menzionati dalla stessa legge 194, sono sempre risultati sbilanciati a favore della prima.

Ci sono una serie di pregiudizi e luoghi comuni duri a morire, per i quali il teorema radical-abortista non cede terreno. Uno di questi è legato all’autodeterminazione delle donne: a distanza di quasi cinquant’anni, non accenna a tramontare la retorica per cui “l’utero è mio e lo gestisco io”. Mettere in discussione questa autodeterminazione viene identificato più come un passo indietro verso una mentalità maschilista e patriarcale, dimenticando, però, che spesso è proprio l’uomo a imporre l’aborto alla propria compagna, evitando così di sobbarcarsi l’onere di una paternità imprevista e indesiderata.

Anche il consumismo, l’edonismo sono dei nemici giurati della maternità e della vita nascente. Mortificato lo spirito di servizio in nome della famiglia e dei figli, si è tentato di magnificare l’emancipazione femminile sul lavoro, arrivando alla nemesi della donna “in carriera” schiavizzata non più dal marito o dal padre ma dal datore di lavoro. “Se provi a fare un figlio, sarai licenziata”: questo il messaggio che passa nelle aziende, traviando così la mente delle dipendenti, talora costringendole a malincuore all’aborto.

Un terzo elemento che non permette di recedere dalla mentalità abortista è l’eugenismo. Far nascere un figlio disabile, down o con malformazioni varie, dai piedi piatti al labbro leporino, è ritenuto da molti una crudeltà: “Che razza di vita gli farai vivere?”. Per il pensiero dominante, l’unico diritto riconosciuto ai bambini malati è quello a non nascere, perché “soffriranno e basta”. Dietro argomentazioni fintamente pietose e pseudo-umanitarie, tuttavia, si nasconde una ragione ben più squallida e inconfessabile: il piccolo disabile è un costo per il sistema sanitario nazionale e per la società intera. Non ragionavano così anche gli spartani e i nazisti? La risposta è affermativa ma se lo dite alle femministe, lo fate a vostro rischio e pericolo…

Luca Marcolivio

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