09/08/2017

Aborto “terapeutico” e cura della talassemia

Quando si parla di aborto “terapeutico” il pensiero corre spesso alla sindrome di Down o al labbro leporino, non si pensa a una condizione patologica potenzialmente molto più diffusa, soprattutto nel nostro Paese: l’anemia mediterranea, detta anche microcitemia o talassemia.

Che cosa è la talassemia

L’anemia mediterranea è una malattia genetica che conta 1 portatore sano su 20 in tutto il mondo. I portatori del gene mutato (chiamati “microcitemici” a causa della ridotta dimensione dei loro globuli rossi) generalmente conducono una vita perfettamente normale; ma nel caso in cui due portatori desiderino avere un bambino, c’è una probabilità del 25% che il bambino nasca malato di “talassemia major”. Un talassemico major ha globuli rossi “inefficaci” nel trasportare ossigeno ai tessuti. Ne consegue che queste persone sono dipendenti da continue trasfusioni di sangue, con una frequenza media di una trasfusione ogni 15 giorni.

“Un piccolo prezzo da pagare per vivere” penseranno in tanti. Purtroppo però la realtà di questi pazienti non è così semplice. Nei decenni scorsi in particolare, le trasfusioni di sangue erano sinonimo di possibili contagi, eccesso di ferro nel sangue con conseguente deterioramento degli organi, possibili reazioni trasfusionali e immunologiche.

Lo screening, l’informazione e la soluzione: l’aborto

Negli ultimi decenni, accanto al miglioramento delle terapie, che ha consentito una notevole riduzione degli effetti collaterali, si è affiancata una battaglia informativa dai fini un po’ meno limpidi. Nelle scuole medie è attivo infatti da circa 40 anni uno screening che ha l’obiettivo di individuare i portatori di anemia mediterranea, al fine di “informare adeguatamente” dei potenziali problemi cui possono andare incontro coppie di portatori sani di talassemia. Una informazione dal doppio volto: da un lato infatti si invitano i giovani a valutare in maniera consapevole le relazioni affettive sul nascere alla luce di questo potenziale e serissimo problema, dall’altro, però, si individua come unica possibile soluzione, nel caso in cui una coppia di microcitemici desideri procreare, la diagnosi prenatale e il successivo eventuale aborto, ossia l’inumana e spregiudicata politica del “ritenta e sarai più fortunato”, presentato come una prassi consolidata, come difatti è.

Nel Lazio l’aborto ne ha fatti fuori 400. Ne sono scampati solo 33

Un report redatto dal Centro Studi Microcitemie di Roma recita così: «Dal 1993 al 1998 non è più nato nel Lazio nessun malato italiano di anemia mediterranea in coppie inconsapevoli della propria condizione di microcitemici. Dal 1999 al 2014 si sono registrate le nascite di alcuni malati per cause indipendenti dal piano di prevenzione (11 malati per rinuncia alla diagnosi prenatale). Si stima che nel corso degli ultimi 40 anni ne sarebbero nati, in assenza degli interventi di prevenzione, circa 400. […] Un dato allarmante degli ultimi 15 anni è la registrazione di 33 nuove diagnosi di patologie emoglobiniche in figli di cittadini immigrati che non avevano partecipato ai programmi di prevenzione. Ciò conferma la necessità di proseguire nel cammino intrapreso coinvolgendo ancor di più, anche in ambito scolastico, la popolazione di origine straniera».

Fuor di metafora, 400 bambini uccisi a seguito di diagnosi prenatale nel solo Lazio. E’ definito “preoccupante” il fatto che 33 bambini siano sfuggiti al controllo e siano nati, nonostante gli sforzi profusi(!), il che mostrerebbe la necessità di educare gli immigrati ai nostri “valori” con opportune campagne.

Oggi esistono delle alternative all’aborto

Campagne in cui, però, nessuno spiega chiaramente che le terapie per questa malattia oggi esistono e non sono più invalidanti come lo erano 30 anni fa. Nessuno spiega che l’aspettativa di vita di un talassemico oggi è enormemente aumentata, raggiungendo livelli quasi pari a quelli di persone “normali”. Nessuno spiega che la talassemia è diventata addirittura guaribile, grazie al trapianto di midollo osseo.

E nessuno ovviamente spiega che il cosiddetto “aborto terapeutico” non ha proprio nulla a che vedere con le terapie, intese come pratiche protese a salvare un essere umano o a migliorarne la qualità di vita.

“Buttar via il bambino con l’acqua sporca”

A tal proposito ricordo alcuni articoli letti sull’argomento una ventina di anni fa, quando, poco più che adolescente, ero, come tanti, sedotto dal vorticoso prorompere della scienza. All’epoca, come oggi, era facile imbattersi in articoli trionfalistici nei quali si elogiava la recente conquista della diagnosi prenatale, che consentiva di “individuare feti malati a pochi mesi di gestazione, riducendo notevolmente il numero di bambini nati con queste patologie”. E nella mia mente, ancora non pienamente consapevole del livello di cinismo a cui è giunta la società moderna, quelle parole ispiravano scenari fantascientifici, futuristici trattamenti nel grembo materno, non certo l’idea che la cura di un malato potesse coincidere con la sua soppressione.

Nel mondo della perfezione, che disdegna il malato, oggi non si vede soluzione più semplice che “buttare il bambino con l’acqua sporca”, espressione che nel colorito linguaggio dei nostri avi rappresentava, com’è giusto che sia, un’iperbole e un’ammonizione.

E in attesa che qualcuno cominci a chiedersi “che vita è” quella di un talassemico che deve trasfondere ogni 15 giorni, offrendo soluzioni più “rapide” e “dignitose” anche per chi è già nato per “errore”, “negligenza” o “ignoranza” dei genitori, cerchiamo di ricordare che, volendo, con un po’ di attenzione, con amore e senza fretta, e anche grazie alla scienza vera, quella a servizio dell’essere umano, magari riusciamo a cambiare l’acqua e anche a tenere il bambino.

Giuseppe Fortuna


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