26/06/2019

Cure palliative, parla Boscia (AMCI): «Hospice da potenziare, in Italia quasi inesistenti»

Non basta affermare che per i neonati destinati a vita breve servano le cure palliative e non l’eutanasia o l’accanimento terapeutico. Servono strutture ospedaliere attrezzate per questi percorsi che, in Italia, sono molto rare. A sollevare la questione è il professor Filippo Maria Boscia, presidente dell’Associazione Medici Cattolici Italiani (Amci), che intervistato da Pro Vita & Famiglia, ha ricordato un principio cardine per la tutela delle vite più indifese: al di là della competenza scientifica dei medici preposti, è necessario che si instauri un clima d’amore e d’affetto intorno ai neonati terminali e alle loro famiglie. Un clima anche di pietà ma nella vera accezione del termine, non secondo l’interpretazione equivoca dei sostenitori dell’eutanasia.

Professor Boscia, qual è, in primo luogo, il tratto distintivo delle vite neonatali destinate a così breve durata?

«In questi casi, il confine tra vita e morte è talmente ristretto che, a volte, il nascere e il morire coincidono. In ballo c’è il destino di bambini particolarmente fragili, che vivranno poco tempo, specie quando sussiste in loro una condizione di disabilità. È compito di noi medici aiutare i loro genitori a sostenere condizioni particolarmente esasperanti e, ovviamente, c’è da lavorare molto sul fronte della difesa della vita».

Una legge sulle cure palliative c’è già: perché ne risulta così poco scontata l’applicazione?

«È uno degli argomenti più cogenti e di attivo conflitto, perché riguarda gli aspetti del fine-vita alla nascita, quando due realtà, una di gioia, l’altra di sofferenza e di dolore si incrociano. Su questo punto, abbiamo medici che sostengono le cure palliative siano un fallimento, altri che le ritengono un accompagnamento nella grande solitudine vissuta dalle famiglie di quei bambini».

A quale di queste due scuole aderisce l’Amci?

«Noi medici cattolici riaffermiamo il primato della coscienza e dell’assoluta difesa della vita, che prescinde dal dettato religioso. Le cure palliative indirizzate al controllo della sofferenza nel post-nascita e del dolore post-nascita rappresentano un modo per mantenere questi bimbi in un circolo esistenziale sostanziato di rapporti umani affettivi in cui il dono e la gratitudine hanno un significato notevole. Se la vita è sacra in ogni suo momento, dal concepimento alla morte naturale, a maggior ragione lo è nella sua fase prenatale, che riguarda i soggetti più indifesi del mondo. Mentre alcuni desidererebbero che l’orientamento in questo delicatissimo campo vada verso la soppressione eugenetica, il nostro orientamento ribadisce il suo ‘no’ a qualunque forma di eugenetica e sottolinea l’importanza di seguire questi soggetti fragili nel segno dell’accoglienza neonatale anche quando il bambino, per la sua sofferenza o per la sua limitazione fisica neonatale, è destinato a vivere solo per pochissimo tempo».

Si parla molto degli hospice perinatali come strutture idonee per questo tipo di cure palliative: a che punto siamo?

«Sono strutture quasi inesistenti in Italia, salvo 4-5 realtà. Gli hospice vanno creati o potenziati perché si possa considerare la delicatissima condizione dei bambini destinati a morire subito dopo il parto. La disabilità diagnosticata alla nascita, magari non riscontrata nel corso della gravidanza, è da sostenere con un adeguamento sia delle cure che delle norme deontologiche in grado di impedire infanticidi motivati da “pietà”. Credo che, in uno stato di diritto, queste richieste non debbano mai essere sostenute, perché rappresentano una pericolosa deriva etica, per cui molti “avanguardisti” potrebbero arrivare a sostenere che sia assolutamente inutile impiegare risorse nel settore della fragilità, che, tra l’altro, potrebbero sviluppare sofferenze per tutti, genitori compresi. Noi, al contrario, sosteniamo con forza che prendersi cura di questi bambini fragili aiuti i genitori a elaborare il conseguente lutto, cioè a non vivere la morte del figlio solo come una perdita ma anche come una tappa psicologicamente utile ad avviare un cammino di verità nella fragilità».

I sostenitori dell’eutanasia, compresa quella infantile, usano l’argomento della “pietà”: qual è però, la corretta concezione di pietà?

«La pietà non è nel sopprimere, la pietà è nell’accogliere. È una regola di generosità e di sostegno che ci porta a dare dignità anche a quei bimbi meno fortunati che si trovano ad affrontare questo destino ineluttabile. Questa situazione è sicuramente da considerare con apprensione, perché la percentuale di nati pre-termine sta aumentando, anche se stanno migliorando anche la cura e la qualità degli interventi che possono essere fatti su questi bambini. Anche le percentuali di sopravvivenza stanno aumentando. I neonatologi affermano anche che si sta riducendo l’incidenza nelle disabilità neurosensoriali soprattutto nelle grandi immaturità. Sono campi che richiedono una grande dedizione e un esteso impegno multidisciplinare che garantisca ogni aspetto dell’assistenza neonatale. I medici, i clinici, i neonatologi sono chiamati a offrire una continua e accurata presenza intorno alla famiglia che, chiaramente, va tenuta informata sulla situazione corrente, sulla prognosi e deve essere sempre coinvolta in tutte le decisioni che possono incidere sull’esito finale. Mi preme sottolineare che, nell’organizzazione degli hospice neonatali, bisogna abolire tutte le improvvisazioni, rendendo omogenee, codificate e coerenti tutte le pratiche assistenziali e dei relativi percorsi».

Altro principio che perseguite è quello di evitare la “sproporzione terapeutica” o l’“accanimento terapeutico”: qual è il discrimine?

«La sproporzione terapeutica va sempre evitata. Un prolungamento improprio della vita non ha alcun profilo etico. Soluzioni facili non ce ne sono. Qualche volta può capitare che si superi il limite della proporzionalità terapeutica, perché, a mio avviso, tra proporzione e sproporzione c’è un sottilissimo velo che talvolta non riusciamo nemmeno a identificare. In ogni caso, i lodevoli successi contro l’eutanasia non devono degenerare in un accanimento terapeutico. Quando una terapia si dimostra sproporzionata o la si ritiene sproporzionata, è moralmente lecito interromperla. Non è un lasciar morire ma significa rispettare quella vita, che non va manipolata oltremisura. Io credo che ci siano dei casi di incertezza prognostica e prenatale: questi casi ci invitano a “stare nella vita”, anche e soprattutto nei casi di dubbio. Quando la medicina non ha più nulla da fare, allora inizia l’opera più impegnativa del medico, specie se quest’opera del medico risulta impregnata di valori e di sentimenti».

Ultimo punto: quanto è importante per la madre del “bambino terminale” la vicinanza e il contatto con il figlio?

«È un campo in cui ogni forma di rispetto può consentire a quel bambino di essere abbracciato, tenuto accoccolato sul seno materno perché, nella vita dei familiari, resti il segno di aver amato per sempre quel figlio e di non averlo mai “cestinato”. In questo delicato ambito, credo bastino poche ore per lasciare delle tracce indelebili di conforto soprattutto se la mamma ha potuto tenere il suo bambino tra le sue braccia, anche solo per pochi attimi. Le mamme che sono state vicine ai loro bambini, che hanno avuto modo di accudirli, toccarli e tenerli in braccio dopo la nascita, durante la sofferenza ma anche dopo la morte, riescono a rapportarsi con il loro lutto in una maniera fisiologica, inenarrabile. Questa sensibilità si sviluppa molto più nelle donne che hanno tenuto in braccio i loro bambini rispetto a quelle che non hanno avuto questa possibilità. Allora se la scienza già ci orienta su questo profilo, io credo che dovremmo consentire l’instaurarsi di un buon rapporto tra madre e bambino, mentre l’organizzazione ospedaliera dovrebbe predisporre i luoghi, le spese, il personale, di modo che tutto quanto vada a sostenere il contatto madre-figlio creando un’armonia, una reale umanizzazione delle cure neonatali. L’assistenza di questi neonati deve rientrare in una dimensione assistenziale. L’assistenza a questi neonati deve comprendere anche l’assistenza ai loro genitori. L’incontro del personale sanitario con questi bambini e con i loro genitori accresce in loro la convinzione che la vita sempre va accettata anche quando si prevede un esito infausto o la fine. Siamo sempre più convinti che, anche quando la morte si fa molto vicina, il valore della vita cresce e si esalta».

Luca Marcolivio

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