27/04/2019

Eutanasia e cure palliative: un confine sempre più labile

Con l’avanzare dei lavori parlamentari per la discussione sull’introduzione dell’eutanasia in Italia, continuano a essere rese pubbliche, con cadenza regolare, le dichiarazioni degli esperti sul tema. Nei primi di aprile è stata la volta di Italo Penco, presidente della Società Italiana di Cure Palliative (Sicp), ascoltato dalle Commissioni riunite Giustizia e Affari sociali di Montecitorio, nell’ambito dell’esame delle proposte di legge sulla liceità dell’eutanasia. «È fondamentale», ha dichiarato in quell’occasione, «implementare una rete per offrire le cure palliative in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale, al fine di scongiurare il più possibile la ricerca di eutanasia e suicidio assistito». È «proprio la mancanza di informazioni sul diritto a ricevere cure per il controllo della sofferenza», secondo Penco, che «può far optare per l’eutanasia».

Un anno fa, e precisamente il 10 gennaio 2018, sempre il presidente della Sicp, aveva rilasciato un’intervista ad Avvenire sul tema della sedazione palliativa e del suo possibile uso a fini eutanasici. Alla domanda: «Per intenderci, a un lungodegente cronico, a una persona in stato vegetativo, a un malato di Alzheimer, o di Sla, si potrebbe dare la sedazione profonda per porre fine alla loro vita?»; Penco rispose: «Assolutamente no. La si dà a tutti i pazienti affetti da qualsiasi patologia, ma se sussistono le due condizioni già dette: stadio terminale (in media dai tre giorni prima della morte in poi) e sintomi non più gestibili con i farmaci».

Il problema è che, come ha evidenziato Wanda Massa in un articolo dedicato, attualmente la sedazione palliativa è spesso usata come “via italiana” all’eutanasia. Nel modulo di Dat predisposto in più di un Comune italiano, si legge: «Qualora io avessi una malattia allo stadio terminale, o una lesione cerebrale invalidante e irreversibile, o una malattia che necessiti l’utilizzo permanente di macchine o se fossi in uno stato di permanente incoscienza (coma o persistente stato vegetativo) che secondo i medici sia irreversibile dispongo che: Siano intrapresi tutti i provvedimenti volti ad alleviare le mie sofferenze. Il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore».

Una malattia che necessiti l’utilizzo permanente di macchine o lo stato vegetativo non implicano lo “stadio terminale” e tantomeno la presenza di “sintomi non più gestibili” con gli ordinari analgesici; ne sono testimonianza i tristemente noti casi di Piergiorgio Welby, Terri Schiavo ed Eluana Englaro. Per tornare allora alle parole di Penco, sembra effettivamente che la somministrazione delle cure palliative non sia effettuata «in modo omogeneo» su tutto il territorio nazionale. In alcuni casi, infatti, la sedazione palliativa è chiaramente offerta come alternativa all’eutanasia. E si tratta di un’alternativa assolutamente valida, dato che il “sonno” della sedazione è, de facto, sia socialmente che soggettivamente (per la coscienza dell’individuo) assimilabile a una “morte artificiale”.

In conclusione, se garantire l’applicazione omogenea delle cure palliative in tutto il territorio nazionale significa impedirne l’impiego a fini eutanasici, tutto il nostro supporto alle dichiarazioni del presidente Penco.

Vincenzo Gubitosi

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