03/07/2019

Eutanasia, parla Silvana De Mari: «Neanche Lambert è terminale. Sveglia!»

Viviamo immersi in una cultura della morte per la quale l’aborto, ormai, non è più soltanto possibile ma è addirittura visto come un’opportunità. Una cultura per la quale l’eutanasia è la normale e accettabile rimozione di persone improduttive che costano allo Stato. Eppure, osserva la dottoressa Silvana De Mari, è raro che una persona voglia davvero la morte ed è ancor più improbabile che la sua reale intenzione possa essere quella di farsi uccidere consensualmente da altri. È compito dei medici, dunque, quello di recuperare la cultura della vita, anche a costo di apparire “impopolari”, ha dichiarato la dottoressa e scrittrice a Pro Vita & Famiglia.

Dottoressa De Mari, in questi giorni è tornata alla ribalta la vicenda di Vincent Lambert, che, a causa della recente sentenza della Cassazione francese, rischia di morire. Perché vogliono sacrificare la sua vita nonostante sia una persona capace di sentimenti e percezioni, ancorché cerebrolesa?

«Per Lambert vale lo stesso discorso che è valso anni addietro per Terry Schiavo ed Eluana Englaro. Non siamo di fronte né a malati terminali, né a pazienti in coma ma a pazienti cerebrolesi, perfettamente in grado di respirare da soli. Non sono legati ad alcuna macchina e loro stessi sono in grado di deglutire, sia pure con difficoltà e lentezza, per cui a volte sono nutriti col sondino».

Cosa avverte il cervello di queste persone?

«Le informazioni che abbiamo sul cervello sono insufficienti, tuttavia quello che sappiamo con certezza è che queste persone sono in grado di provare dolore. Non dobbiamo però cadere nell’errore di considerare dolore e sofferenza come sinonimi, in quanto esprimono due concetti diversi. La sofferenza è l’elaborazione mentale del dolore, il quale è semplicemente un’informazione di danno portata al cervello dai fasci talamo-spino-corticali. Ad esempio, se ho fatto gli addominali e mi fanno male i muscoli, è dolore, non è sofferenza; al contrario, sarò molto contento del mio sforzo e del fatto che avrò un’ottima forma fisica. Se invece ho sforzato troppo i miei muscoli, perché in un campo di concentramento sono stato costretto a spostare pacchi di cemento, allora il mio cervello sarà pieno di sofferenza. Immaginiamo anche quanto possa essere diverso il dolore delle doglie, nel caso di una donna che sta partorendo un bimbo sano, rispetto a una donna che sta partorendo un figlio che sa essere senza vita».

Il cervello della persona cerebrolesa può provare sofferenza?

«Non ne siamo certi ma abbiamo la certezza che può provare dolore».

Perché, dunque, molti ordinamenti si arrogano il potere di far morire persone in queste condizioni?

«Va fatta una considerazione significativa: come dimostrano anche i libri di storia, il cervello umano è normalmente portato per la crudeltà. L’empatia, invece, bisogna costruirla con l’educazione, ammaestrando il cervello a non abituarsi agli atti di crudeltà. Oggi, molti medici e infermieri vengono allenati a guardare un paziente morire atrocemente di disidratazione, senza intervenire in alcun modo a reidratarlo. Si sta cercando, in altre parole, di inculcare nel cittadino l’idea che la vita e la morte appartengono allo Stato, il quale può sottrarti i figli per una tua colpa vera o presunta o per il capriccio di un assistente sociale. Lo Stato può far morire tuo figlio per disidratazione o per soffocamento, come Charlie Gard. E i medici, che sono impiegati statali, devono guadagnarsi lo stipendio, facendo l’apprendistato come coloro che prendono ordini dallo Stato».

Alla luce del concetto di sofferenza, come va valutato il caso della diciassettenne olandese Noa Pothoven, che ha chiesto il suicidio assistito per depressione?

«Ho fatto pronto soccorso per molti anni e, in quegli anni, ho “violato” la volontà di morire di molte persone. Arrivava una ragazza che aveva ingerito un quantitativo di pillole e le facevo la lavanda gastrica. Ne arrivava un’altra di 22 kg, con l’anoressia e le davamo il cibo per via endogastrica, dopo averla legata al letto. Siamo stati molto “malvagi”, lo so… Abbiamo agito così perché la medicina ordina di salvare i corpi. Li salviamo dal suicidio, perché, nel 95% dei casi non ripetono il gesto. Se fossero stati veramente convinti di suicidarsi, ci sarebbero riusciti al primo colpo. Chi non ci riesce è perché, in realtà, non ne ha nessuna intenzione. Se uno chiede l’aiuto dello Stato perché non ce la fa a suicidarsi, è perché, in realtà, non ne ha alcuna intenzione. Il cervello è diviso in due parti: una parte che non vuole morire ed è costituita da una delle parti più arcaiche e potenti del cervello e una parte, quella corticale, che “vuole morire” oppure sta facendo un’“ultima richiesta d’aiuto”. Chi vuole suicidarsi si suicida, chi ha bisogno dell’aiuto dello Stato, non è realmente intenzionato a farlo, quindi non bisogna dargli quell’aiuto».

I recenti casi in che direzione potrebbero incanalare il dibattito sul fine vita, in vista della legge da approvare a settembre?

«Ci sono ancora margini per evitare una legge sbagliata. L’epoca in cui viviamo appartiene a una cultura di morte. Ormai siamo oltre l’essere semplicemente a favore alla legalizzazione dell’aborto. Sempre più persone sono favorevoli a praticarlo, l’idea dell’aborto piace… piace l’idea che, con quel corpicino smembrato, la libertà sessuale sia totale. Quanto all’eutanasia, è possibile che siamo nell’epoca della scienza e della tecnica e non siamo in grado di affrontare il problema del dolore? Siamo in un’epoca di totale preponderanza dello Stato, al punto che, per chi non crede in Dio, lo Stato diventa Dio. Non parlo necessariamente di uno Stato totalitario nazista o comunista, anche uno Stato liberal-democratico può diventare oggetto di questa idolatria. Viene meno la famiglia ed è lo Stato che si occupa di noi, dalla culla alla bara. Allora, se uno Stato deve avere a che fare con i suoi conti economici, un’eutanasia legale quanto potrà farlo risparmiare? Disabili come Eluana Englaro costavano poco – c’erano le suore ad accudirla – eppure è dovuta per forza morire: bisognava determinare il principio del diritto di morire, perché un gran numero di persone ritiene nella propria mente che una persona disabile sia un peso. Per alcuni un disabile è un peso anche solo a guardarlo…».

Luca Marcolivio

 

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