21/07/2015

Follia gender alla Suprema Corte

Anche la nostra Cassazione viene contagiata dal virus del gender che imperversa in Europa. Un virus che genera follia.

Abbiamo dato notizia recentemente dell’approvazione del Gender Recognition Bill in Irlanda: seguendo le orme del Consiglio d’Europa, la fu cattolica Irlanda consente il cambiamento di sesso, o meglio di genere (chi se ne importa ...), in base alla sola autodeterminazione del soggetto transgender.

In Norvegia, che è ovviamente ancora più avanti, si discute la possibilità di cambiare il sesso anagrafico sulla base, anche qui, di una semplice auto-dichiarazione: la particolarità è che si vuole estendere questo “diritto” anche ai bambini a partire dai 7 anni ... con il consenso dei genitori però (quanta moderazione).

Le magnifiche sorti e progressive non potevano non coinvolgere la nostra Italia dove, com’è noto, milioni di transgender vengono atrocemente discriminati e privati del sacrosanto diritto alla autodeterminazione.

E’ così, siccome la legge è lenta a rispondere, in Italia, com’è noto, per fortuna abbiamo i giudici, capaci di adeguare il nostro medievale ordinamento alla società dinamica, cangiante e fluida, quasi quanto l’identità sessuale dei cittadini.

La Cassazione ci regala dunque una storica sentenza. Come riporta il Corriere, la sentenza è stata emessa su ricorso presentato da Rete Lenford per conto di una persona (un uomo) transgender che anni fa aveva ottenuto la possibilità di sottoporsi a intervento chirurgico di riassegnazione del sesso. Il trans però aveva poi rinunciato all’operazione perché (da quanto si legge nel comunicato di Rete Lenford – Avvocatura per i diritti LGBTI) «aveva raggiunto nel tempo un equilibrio psico-fisico e da 25 anni vive ed è socialmente riconosciuta come donna».

Infatti si era sottoposto a terapie ormonali e a interventi sui caratteri sessuali secondari ma rifiutava la “sterilizzazione forzata” conseguente alla modificazione chirurgica dei genitali (caratteri sessuali primari). Eppure lui voleva essere donna. In primo e secondo grado, prima il tribunale di Piacenza e poi la corte d’appello di Bologna avevano respinto la richiesta del ricorrente, conformandosi (medievali!) alla giurisprudenza prevalente che condizionava la modificazione degli atti anagrafici almeno al trattamento chirurgico sugli organi genitali.

La Cassazione ha però rovesciato le precedenti decisioni e dato ragione al trans, con sentenza n. 15138/2015, regalandoci perle di saggezza: «la percezione di una disforia di genere determina l’esigenza di un percorso soggettivo di riconoscimento di questo primario profilo dell’identità personale né breve né privo d’interventi modificativi delle caratteristiche somatiche ed ormonali originarie. Il profilo diacronico e dinamico ne costituisce una caratteristica ineludibile e la conclusione del processo di ricongiungimento tra “soma e psiche” non può, attualmente, essere stabilito in via predeterminata e generale soltanto mediante il verificarsi della condizione dell’intervento chirurgico».

Insomma, per cambiare sesso/genere sulla carta d’identità, ora non serve nemmeno l’intervento chirurgico. Niente più interventi chirurgici “dolorosi e invasivi” (eh già ...): la presidente dell’Associazione Rete Lenford, Maria Grazia Sangalli, esprime la propria soddisfazione per la sentenza «che ha finalmente chiarito che l’intervento chirurgico di riassegnazione – quando non è frutto di una scelta personale – è uno strumento lesivo dell’integrità fisica e della dignità umana”.

La Cassazione non arriva ancora alla autodeterminazione pura del genere (probabilmente a causa di residui di omotransfobia) ma riconosce l’autodeterminazione, potremmo dire, condizionata a qualche “apparenza” del sesso/genere desiderato: bastano le somiglianze a livello dei caratteri sessuali secondari e non più dei caratteri primari. (Ma presto arriveremo a superare anche questo ostacolo: la pura autodeterminazione di genere sembra essere dietro l’angolo).

Non ci resta che contemplare ammirati le conseguenze di cotanto progresso:

– in Italia è diventato un sacrosanto diritto (di origine giurisprudenziale per il momento) avere la propria identità di genere riconosciuta pubblicamente, anche senza trattamento chirurgico.

– E quindi c’è il relativo dovere di assecondare la disforia di genere di una persona: cioè riconoscerla per quello che oggettivamente non è, ma crede di essere in base a una percezione patologica(Un po’ come se ci fosse il dovere di dichiarare sovrappeso una persona che soffre di anoressia ...). Ma questo in realtà già c’era, perché con o senza operazione chirurgica il risultato è lo stesso: assecondare una patologia.

in Italia due “donne” potranno avere naturalmente un figlio ... cioè una donna (più o meno) normale e una “donna” transgender con genitali maschili integri. Insomma è diventato possibile che un bambino abbia due “mamme” senza passare per la fecondazione eterologa. E così anche due “papà” ... (Notate le virgolette per favore).

Queste aberrazioni però non sono che il risultato abbastanza logico di alcune premesse: il peccato originale da questo punto di vista (senza andare troppo indietro nel tempo) è di aver permesso la “riassegnazione del sesso”. Cioè di aver permesso l’impossibile.

Cambiare veramente sesso, con o senza modificazione dei genitali, è in realtà impossibile. Il sesso è iscritto nel nostro DNA, in ogni cellula del nostro corpo, e gli effetti più profondi di tutto quel meccanismo biologico determinato dalla presenza o dall’assenza del cromosoma Y, come la conformazione stessa dell’encefalo, sono irreversibili. Le operazioni chirurgiche non potranno che creare un’apparenza di organi genitali del sesso opposto. I trattamenti ormonali non potranno che creare un’apparenza di femminilità o mascolinità senza modificare la sessuazione cerebrale. Si potranno indossare quanto si vuole i “vestiti” del sesso opposto, ma l’identità sessuale di nascita rimane, profonda, inestirpabile, perché coincide in fin dei conti con il nostro “Io”: noi siamo (non solo ma anche) corpi sessuati.

Il secondo peccato mortale è stato di introdurre nell’ordinamento (in norme primarie e secondarie) la nozione di identità di genere come aspetto più profondo dell’identità sessuale (e di conseguenza, prevalente rispetto al sesso biologico).

La sentenza della Cassazione non è che il prodotto di ingredienti già presenti nella nostra società: ingredienti che porteranno prima o poi alla assoluta autodeterminazione del genere.

Il regno del gender è alle porte. Sta a noi fermarlo.

Alessandro Fiore

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