14/07/2014

Gloria Pelizzo – Aiutare la Vita coinvolgendo tutti

Una passione profonda per la Vita, un approccio poliedrico ed una visione d’insieme mirabile: Gloria Pelizzo non si limita ad essere un chirurgo come pochi in Italia ve ne sono – forse unica nel suo campo – ma è una donna che impiega tutte le sue risorse per il benessere dei bambini e delle loro mamme.

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Se in Olanda i giudici consentono che i neonati con la spina bifida vengano ammazzati appena partoriti, da noi possono essere abortiti comunque ben oltre il termine di tre mesi: a che serve tutto quello che fa Gloria Pelizzo? A che serve salvare una vita prima ancora che sia nata? A che serve incidere l’utero di una gestante, tagliare il sacco amniotico, aspirare il liquido e conservarlo, estrarre un esserino di 22 settimane, riparargli il difetto congenito, rimettere il bimbo nella pancia della mamma, reintrodurre il liquido nell’amnio, ricucire il tutto e attendere con fiducia il giorno del parto?

C’è qualcosa di stupendo in tutto ciò che fa questa donna, dal 2010 direttrice della struttura complessa di chirurgia pediatrica del Policlinico San Matteo di Pavia, dopo sei anni passati nella clinica dell’Université Claude Bernard a Lione, quattro all’hôpital de la Timone a Marsiglia, uno e mezzo all’hôpital universitaire Necker-Enfants malades di Parigi, uno all’ospedale Santa Chiara di Trento, sette al Sant’Anna di Ferrara, due all’Asl Medio Friuli di Udine, dieci all’Irccs materno infantile Burlo Garofolo di Trieste, prima di approdare qui nel capoluogo lombardo. [I lettori di Notizie Pro Vita sanno del convegno che si è tenuto a Marzo al Gemelli di Roma, e sanno che sono rari questi centri in Italia., N.d.R.]- Il progetto di ricerca di chirurgia fetale, della Pelizzo è senz’altro all’avanguardia. Una dozzina d’interventi chirurgici già all’attivo, metà dei quali eseguiti a cielo aperto e metà con una tecnica laparoscopica mininvasiva (cioè senza bisogno del bisturi) per correggere nei nascituri malformazioni gravissime, come la spina bifida, appunto, l’incidenza dei casi d’idrocefalo,  la discesa del cervelletto. Con le sue tecniche la dottoressa evita le complicanze operatorie, assicura un migliore controllo degli arti inferiori: questi bambini un giorno potranno camminare.

Certo, i colleghi di Amsterdam le diranno che sarebbe meglio ucciderli. Ma Gloria Pelizzo, originaria di Udine, sposata con Ezio, libero professionista, madre di Jacopo, 23 anni, e Sofia, 13, un volto radioso che ricorda quello dell’attrice Helen Mirren di The Queen, ma con tre lustri di meno, fa tante altre cose che non dovrebbe fare. Per esempio ammette nel suo reparto cani e gatti affinché tengano compagnia ai piccoli degenti. Oppure chiama gli studenti del conservatorio di Pavia a suonare il violino e il violoncello nei corridoi, «perché la musica ha uno straordinario potere calmante, dà senso di benessere e limita gli sbalzi di pressione nelle prime due ore dopo l’intervento chirurgico, al risveglio dall’anestesia generale».

E poi ne ha combinata un’altra di davvero molto grossa: ha aperto le porte della struttura di chirurgia pediatrica ai galeotti. Gente come Michele, Cristiano e Raffaello, che stanno scontando la pena nel carcere di Torre del Gallo: detenuti in regime di semilibertà che vengono a rendersi utili. Alcuni tornano anche dopo aver saldato il loro debito con la giustizia. È il caso di Gabriele Albergati, detenuto per furto fino al 2013, che è un po’ diventato la mascotte di medici e infermieri. Il giorno dopo essere uscito di prigione, era già qui, «per riconoscenza verso Gloria», spiega, «che ogni settimana veniva a trovarci in cella». In otto mesi di duro lavoro, senza l’aiuto di nessuno, ha ritinteggiato tutte le 10 camere del reparto. Altri suoi ex compagni di sventura, come Maurizio, Ivano, Hassan, Luigi, Francesco e Pietro, condannati all’ergastolo o a pene pesanti per reati talmente gravi (omicidio, associazione per delinquere di tipo mafioso, rapina a mano armata) da non poter usufruire mai dei permessi d’uscita, si prendono cura a distanza dei 22 ricoverati scrivendo poesie o cuocendo dietro le sbarre Gli Amicotti, gli unici biscotti italiani in vendita a scopo di beneficenza con un ricetta che contempla come primo ingrediente «2 decilitri di bontà», così c’è scritto sulla confezione.

Sono stati loro, i carcerati, a scegliere l’immagine di copertina per Oltre la cura… oltre le mura, il libro che Gloria Pelizzo ha scritto per l’editore Cantagalli con Valeria Calcaterra, arricchito dai contributi di alcuni dei tanti estimatori che l’intrepida chirurga conta in giro per l’Italia: Aldo, Giovanni e Giacomo, Pupi Avati, Rita Borsellino, Carlo Rossella. Nella foto si vedono spuntare da un telo ospedaliero i piedi di mamma Katia, sposata con Fabio, come si evince dal nome tatuato fra caviglia e malleolo. In mezzo, i piedini di Carletto all’età di 8 mesi. «Ha già subìto otto o nove operazioni, ormai ho perso il conto, per un danno viscerale riportato alla nascita», spiega la professoressa Pelizzo. «Non poteva alimentarsi. Gli abbiamo recuperato l’intestino centimetro per centimetro. Ora ha 2 anni. Mangia, cresce e sta benissimo».

Perché ha scelto di fare il medico?
«Non l’ho scelto. Mi sono ritrovata a farlo a 8 anni. Mia madre Noemi divenne paraplegica da un giorno all’altro. Non s’è mai capito perché. Per 48 mesi rimase invalida. Mio padre Angelo, camionista, era sempre in giro per l’Italia. Così, prima di andare a scuola, toccava a me alzare dal letto la mamma, lavarla, vestirla, prepararle la colazione. Lo stesso dovevo fare con mio fratello Loris, che aveva 6 anni. L’accudimento ce l’ho nel sangue. Ma papà non voleva che studiassi da medico. Al massimo per lui potevo diventare infermiera, forse caposala».

Si sbagliava.
«Quando a 18 anni gli annunciai che volevo iscrivermi a medicina, ricevetti un manrovescio. Per lui era una carriera che avrebbe potuto intraprendere solo un maschio. Andai di nascosto all’ateneo di Ferrara, partendo da Udine alle 4 di mattina. Le 40.000 lire per le tasse universitarie me le diede Ezio, da poco mio fidanzato, idem le 6.800 per il biglietto del treno. Tornai e informai mio padre. Mi disse: “Quella è la porta!”».

Come mai scelse proprio Ferrara?
«Gli iscritti al corso erano appena 60 e io dovevo avere la certezza d’essere ben seguita per potermi laureare in fretta. Il mio primo maestro fu Paolo Georgacopulo, triestino di religione ortodossa, padre greco, madre austriaca. Un gigante. Oggi ha 81 anni. Prima di operare, mi chiedeva: “Ma è battezzato questo bambino?”. Non sapevo che cosa rispondergli. Allora lui mi diceva: “Venga, mi serve una madrina”. Portava il piccolo sotto il rubinetto, gli bagnava il capo e lo battezzava. La sua prima cura era abbracciare i bimbi. Li visitava stando in ginocchio. Ho imparato da lui a fare lo stesso. Se ti metti all’altezza del loro sguardo, percepisci cose che un adulto non vede».

Un altro maestro l’ha avuto a Lione.
«Sì, Jean Paul Chappuis, ancora più severo di Georgacopulo, tanto che noi studenti lo chiamavamo L’Orso. Un tecnico sopraffino nella chirurgia neonatale, dotato di un’umanità infinita. Se un bambino non mangiava, era capace di chiudersi con lui per ore nello studio, sicuro che alla fine lo avrebbe convinto ad alimentarsi. “Ha parlato con il paziente prima di addormentarlo?”, m’interrogava sull’uscio della sala operatoria. Certo, professore, ho fatto l’esame obiettivo, è tutto in ordine, rispondevo. “Non m’interessa la cartella clinica. Io voglio sapere se l’ha ascoltato, non se l’ha auscultato! Che cosa le ha detto? Che sensazioni provava? Era tranquillo o impaurito? Gliel’ha chiesto, questo?”. Chappuis sapeva che i bambini, quando non si sentono amati, smettono di lottare. Tagliare un fanciullo è un atto violentissimo, orribile. Puoi farlo solo se ti sei guadagnato la sua totale fiducia».

Ma i suoi allievi sono disponibili a questo contatto umano?
«Non tutti. Ho chiesto a uno specializzando se fosse disposto a seguire un’urgenza. Ha rifiutato: era atteso a un happy hour. Gli ho spiegato che era meglio se si concedeva l’aperitivo tutte le sere. Ha capito ed è andato via per sempre. Una tentazione che ho avuto anch’io».

Non posso crederci.
«Invece è accaduto nel 2008. Il mio primogenito mi ha sempre rimproverato: “Tu hai sposato l’ospedale”. Aveva ragione: 7.30-18, sabato e domenica inclusi. Siamo stati a Lione da soli per 6 anni. In pratica lo hanno cresciuto le nunù, le bambinaie. Allora andai da Saverio Comisso, dirigente dell’Asl Medio Friuli, e lo pregai di retrocedermi a medico di famiglia, dandomi un ambulatorio con orario 8-14».

Un colpo di testa.
«È quello che pensò anche lui. E infatti mi cacciò dall’ufficio: “Questo non è il suo posto. Se ne vada”. Qualche mese dopo, mentre alle 22 tornavo a casa dall’ospedale di Trieste, sulla strada per Udine nevicava forte. Mi schiantai contro una massicciata. Ero incastrata fra le lamiere, sanguinante, con il naso rotto, quand’ecco si fermò un’auto. Scese una ragazza. Avrà avuto 24 anni. Rimase lì quattro ore, fino a quando non arrivarono i vigili del fuoco a estrarmi. Mi tamponava le ferite e mi confortava: “Non si preoccupi, adesso la tiriamo fuori”. Ma eravamo solo noi due. Mentre lei chiamava i soccorsi, io le raccomandavo di non chiedere il codice rosso, sicura che in quella notte da lupi vi fossero in giro feriti più gravi di me da soccorrere. Alla fine, stordita e dolorante, rifiutai il ricovero in ospedale».

Ma è assurdo. Perché mai lo fece?
«L’indomani mi attendeva un intervento chirurgico. Promisi ai soccorritori che mi sarei sottoposta a una Tac. La ragazza si offrì di accompagnarmi fino a casa. Tra andata e ritorno si fece più di 100 chilometri. Mi abbandonai a lei, le affidai la mia vita, come i pazienti che entrano in sala operatoria. Al momento di salutarci, chiesi a quest’angelo, del quale non conosco neppure il nome, perché mi avesse circondato di tante premure. Mi rispose: “Perché il bene torna sempre indietro. Lei deve averne fatto tanto. Non smetta di farne, non si arrenda”».

Com’è che, mentre racconta queste cose, io mi commuovo e lei invece resta impassibile? È un dono di natura? Prende qualche farmaco?
«Non è insensibilità, questo spero che si capisca. È che il chirurgo si allena al distacco. In sala operatoria deve estraniarsi dalla scena. Quando parlo di me stessa, è molto più difficile. Ma ho avuto modo di ripensare tante di quelle volte a questa storia da riuscire a interiorizzarla e a provare solo gioia nel raccontarla».

Come le è venuto in mente di aprire le porte del suo reparto ai carcerati?
«Nel 2012 il padre di una compagna di classe di mia figlia mi parlava della sofferenza e dell’isolamento, che per me erano rappresentati dalla malattia e per lui dalla detenzione. Si creò un equivoco sulle rispettive professioni: io pensavo che fosse un medico e lui una collega poliziotta penitenziaria. Quindi è accaduto l’esatto contrario: è stato questo genitore ad aprire a me le porte del carcere in cui lavora. Ho trovato un terreno già arato. Non è che i reclusi pensino molto al dolore altrui: ne hanno già d’avanzo con il proprio. Ma appunto per questo sono capaci d’immedesimarsi subito nelle disgrazie più grandi delle loro».

Mi faccia un esempio concreto.
«Quando ho spiegato che per i miei ricoverati non volevo più i lettini con le sbarre e che l’Asl non poteva mettere a bilancio più di 20.000 euro per comprare quelli con le sponde trasparenti in policarbonato, un calabrese detenuto per reati di mafia, Pietro, è insorto: “Ma come? I bambini dietro le sbarre? Non è giusto. Noi ce le siamo meritate, ma loro che colpe hanno?”. Al successivo incontro mi ha messo nelle mani una busta sgualcita, con dentro 300 euro, frutto di una colletta fra i compagni di detenzione. E hanno voluto anche costruirci un lettino speciale in poliuretano espanso, a forma di Ferrari, così ora i piccoli degenti scendono in sala operatoria su un bolide».

O accompagnati dal cane.
«Angiolina è una golden retriever di 7 anni. Viene in reparto con la sua istruttrice, Debra Buttram. È una terapia animale assistita che fa molto bene ai bambini quando non rispondono alle cure».

In Olanda i feti su cui lei interviene vengono soppressi.
«Succede pure in Italia, quando il medico scappa davanti al dolore. Allora finisce che l’aborto venga spacciato come una terapia. Anche a mamma Rosa avevano consigliato di disfarsi della creatura con spina bifida che portava in grembo. Invece lei ha trovato una ricchezza in quella che doveva essere una tragedia. Ho operato la sua Elisabetta prima della nascita. Oggi è una bimba birichina, molto intelligente, che va a scuola e cammina da sola».

Vede differenza fra il dolore dell’adulto e quello del bambino?
«Il dolore fa parte della vita. Colpisce il prematuro, il neonato, il bambino, l’adolescente, l’adulto, l’anziano. Possiamo solo accettare la nostra fragilità di esseri umani. Nel 2011 sono rimasta vittima di un secondo incidente: un camionista s’è addormentato al volante e ha sventrato la mia auto con il suo pesante mezzo. Mentre me lo vedevo piombare addosso, ero sicura di morire. Invece sono ancora qua. Da allora, vivo ogni giornata come se fosse l’ultima».

Stefano Lorenzetto

Fonte: Il Giornale

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