26/08/2013

Immigrazione, debiti, e i dolori della giovane Italia

Nell’era del debito l’indifferenza sulla provenienza degli abitanti di un Paese non è ragionevole

Ci sono voluti due mesi, diversi litigi, le migliori energie di tre partiti politici e una strigliata da parte dell’ottantasettenne Presidente Giorgio Napolitano per arrivare al giuramento di Enrico Letta come nuovo Presidente del Consiglio italiano la settimana scorsa. Le prime ore da Primo Ministro di Letta hanno messo in chiaro perché l’Italia ha fatto così fatica a occupare quella poltrona. Letta ha detto ai leader a Berlino, Parigi e Bruxelles che l’Italia vuole mantenere la disciplina fiscale ma ha bisogno di “spazio per la crescita”. In altre parole l’Italia ha bisogno sia dell’austerità che dello stimolo, di più spese e di più risparmio; ha bisogno sia della torta intera che di mangiarla. I mercati sono stati ricettivi e un taglio sulla rata d’interesse fatto dalla BCE ha tenuto a galla l’Italia un altro po’, ma i problemi del Paese hanno radici profonde. Secondo una relazione resa pubblica giovedì dall’OCSE, la crescita pro-capite del PIL italiano nello scorso decennio è stata la più debole in assoluto tra i Paesi membri dell’Organizzazione. Di fatto l’Italia si sta contraendo. Il “vero” PIL è sceso ogni trimestre per quasi due anni. Moody’s, l’agenzia di rating, ha annunciato questa settimana che avrebbe tenuto un outlook negativo sul debito italiano. La disoccupazione è all’11 per cento, quella giovanile al 38 per cento. Il debito governativo in percentuale sul PIL seguiva un lento trend discendente tra il 1996 e la vigilia della crisi finanziaria del 2007-2008, ma ora è aumentato del 127 per cento, o di circa 2 tn (trilioni) di Euro. Considerando che i due decenni prima dello schianto sono hanno visto tempi di boom e di massimo guadagno nel ciclo vitale dei baby boomers (la generazione nata dopo la Seconda guerra mondiale N.d.T.), potreste dire che l’Italia avrebbe potuto uscire meglio dallo schianto.

Ciò non è necessariamente vero. Il più grande problema economico italiano viene spesso taciuto. Non è solo il debito, ma anche l’interazione del debito con la più grave implosione demografica in Europa. Quel che I dolori del giovane Werther, la tragica storia d’amore scritta da Goethe, offriva al diciottesimo secolo – un nuovo modo di diventare profondamente tristi – lo offre il censimento italiano del 2011 al ventunesimo secolo. Nel 1950 l’Italia era uno dei Paesi più popolosi del mondo. Era più grande del Pakistan e grande due volte il Vietnam o l’Egitto. Oggi le donne italiane hanno in media soltanto 1,4 figli a testa. Si celebra la metà dei matrimoni che si celebravano nei primi anni 60. Le morti hanno sorpassato le nascite per decenni, e la popolazione autoctona si sta restringendo alla svelta. Se la popolazione italiana cala troppo in fretta, il debito pro-capite potrebbe ben essere troppo esorbitante per essere gestito, anche se il debito totale è a livelli che in passato sono stati gestiti senza troppi problemi. Aspettarsi che il Paese paghi i suoi debiti allo stesso modo di decenni fa è aspettarsi che un ottantacinquenne beva allo stesso modo in cui beveva all’Università. L’unica speranza dell’Italia per la sostituzione a breve termine della sua declinante popolazione nativa sarebbe attraverso l’immigrazione. E, sul serio, un buon modo di misurare quanto velocemente stia cambiando il profilo demografico dell’Italia è di guardare alla crescita della sua popolazione nata all’estero, che compensa la sua esile crescita demografica generale. La popolazione di stranieri in Italia (un numero che esclude i nati all’estero che prendono la cittadinanza italiana) è triplicata dal censimento del 2001 da 1,3 milioni a 4 milioni. Questo significa che l’Italia importa un milione di stranieri ogni tre o quattro anni per rimpiazzare i suoi nativi in via di scomparsa. Sta agli italiani dire se questo sia o non sia un problema per l’Italia. Ma importare migranti non è una soluzione al crescente debito pro-capite italiano. I migranti, in generale, sono meno istruiti degli italiani che sostituiscono, quindi aggiungono un minor valore, almeno all’inizio. Essi esportano gran parte dei loro risparmi per mezzo delle rimesse. E spesso, nuove spese sono necessarie per preparare il posto di lavoro per loro, ad esempio con lezioni di lingua italiana o assistenza legale. Molto viene scritto sull’immigrazione verso l’Europa come se a nessuna persona di buon senso importasse in alcun modo chi sono, nello specifico, gli abitanti di un Paese e da dove vengano. In una età del debito questa indifferenza non è ragionevole. Indipendentemente dal pareggiamento demografico dell’Italia nei decenni a venire, sarebbe abbastanza naturale per la “nuova generazione” di italiani multietnici chiedersi perché dovrebbero pagare per una “vecchia generazione” in decadenza che ha commesso i suoi misfatti in materia di tasse ben prima che essi (o addirittura i loro genitori) arrivassero nel Paese. Un altro problema è che l’Italia è la terra della Divina Commedia di Dante e della Cappella Sistina. Potrebbe essere possibile convincere un americano o un australiano a pensare (o a dire) che un massiccio arrivo di migranti sarà un “arricchimento” culturale. È più difficile da spiegare in Italia, anche nel ventunesimo secolo. L’immigrazione potrebbe sì arricchire l’Italia in molti modi, ma è improbabile che lo faccia sul piano culturale, ed è ugualmente improbabile che lo faccia sul piano fiscale. E l’idea che lo “spazio per la crescita” sia necessario dopo un programma di consolidamento del debito che è stato varato appena diciotto mesi fa è segno non che l’Italia è pronta a provare nuovi approcci ma che sta per rimanere senza spazio di manovra.

Traduzione a cura di Gian Spagnoletti

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