21/02/2019

La figlia di Serena Dandini e il suo “;docu-gender” finanziato dalla Rai

Spuntano come funghi ormai, i nuovi paladini dello stile di vita “;gender fluid”: stiamo parlando qui di Adele Tulli, figlia di Serena Dandini, che presenterà, al festival di Berlino, un documentario gender prodotto in parte dalla Rai, dunque con i soldi pubblici, dal titolo Normal. L’intento ideologico del docufilm emerge perfettamente in tutta la sua evidenza dalle parole della stessa regista: «Nei miei film precedenti», spiega Adele Tulli a Cinecittà News, «ho lavorato su temi relativi al genere e alla sessualità sempre scegliendo protagonisti che riflettessero il punto di vista di chi si colloca ai margini delle convenzioni sociali dominanti. In questo lavoro volevo sperimentare un cambio di prospettiva, concentrandomi proprio su ciò che viene considerato convenzionale, normativo, normale. L’idea è di creare degli accostamenti che riescano a provocare un senso di straniamento e di sorpresa davanti allo spettacolo della ‘normalissima’ realtà di tutti i giorni».

E quali sarebbero le scene che provocherebbero “straniamento”? È presto detto: la preparazione al matrimonio, con i consigli per le future spose, le madri che fanno ginnastica nel parco usando il passeggino per aiutarsi negli esercizi, i piccoli ferri da stiro rosa presentati come giocattoli per bambine, il coach che si fa complice dei suoi ragazzi mostrando loro come fare conquiste e intrattenere le ragazze ecc. Insomma il quotidiano più spicciolo, presentato però, dalla regista, tramite un accostamento e un susseguirsi di immagini “ad hoc” come una sorta di “normal-anormal”. E sì, perché oggi a destare scandalo non sono i tentativi di indottrinamento arcobaleno perpetrati nelle scuole a danno persino dei bambini più piccoli, né le sfilate oscene e spesso blasfeme dei gay pride, né i bambini che a 10 anni hanno già una carriera avviata come drag queen e neanche i bambini che a 5 anni “sanno” già di essere transgender.

No, oggi il vero scandalo è tutto ciò che rimanda a condotte e comportamenti basati sul buonsenso, il rispetto delle tradizioni e il retto uso della ragione. Un riflesso importante di questa “inversione di rotta” è nel linguaggio corrente: pensiamo al modo in cui il termine “natura” oggi venga sempre più considerato secondo un’accezione negativa, come se si trattasse di qualcosa di superato, se non proprio, in alcuni casi, di una forma di “discriminazione” e, perciò, sempre più sostituito dal termine “diversità”. Ma non c’è bisogno di scavare chissà quanto per far venire fuori l’intento esplicitamente denigratorio di questo docufilm verso chi non la pensa secondo il diktat genderista, perché emerge chiaramente da   un’intervista della regista rilasciata per il webmagazine del Manifesto:

«Quando ho cominciato la ricerca per il film c’era in Italia un’ondata di movimenti genderfobici che cominciava a prendere piede, ma sembrava comunque l’espressione di una parte minoritaria del cattolicesimo. Ed è molto inquietante vedere invece il panorama di oggi, perché ci si rende conto che questi movimenti che fino a pochi anni fa potevano sembrare una frangia molto estremista e radicale oggi sono in parlamento – i fautori di questa legge».

Il riferimento è alle associazioni organizzatrici dei due Family Day e al senatore della Lega Simone Pillon insieme al Ddl che ne porta il nome, sull’affido condiviso, che prevede una bigenitorialità perfetta in caso di separazione e che ha scatenato le ire di buona parte delle donne di sinistra. Secondo la Tulli, questo ddl troverebbe il placet di “;movimenti inquietanti” (le associazioni organizzatrici dei Family Day appunto). Il senatore Pillon invece, non sarebbe molto apprezzato dai radical chic (quasi una medaglia al petto, verrebbe da dire...) così come tutto il popolo del Family Day con cui se la prende la regista e che Pillon in qualche modo rappresenterebbe.

Ma tornando a bomba: riguardo il documentario in questione, emerge, proprio dalle dichiarazioni della Tulli, che siamo di fronte al solito prodotto veicolante una visione della sessualità a senso unico che, invece di “abbattere gli stereotipi” ne crea di nuovi basati su una concezione dell’identità necessariamente fluida (perché, si sa, “tutto il resto è noia”) con l’aggravante del sostegno di Rai Cinema e della produzione affidata all’Istituto Luce Cinecittà, società  che dipende dal ministero dei Beni culturali e dal ministero dell’Economia, ovvero soldi pubblici impiegati per scopi privati.

Manuela Antonacci

Questo articolo e tutte le attività di Pro Vita & Famiglia Onlus sono possibili solo grazie all'aiuto di chi ha a cuore la Vita, la Famiglia e la sana Educazione dei giovani. Per favore sostieni la nostra missione: fai ora una donazione a Pro Vita & Famiglia Onlus tramite Carta o Paypal oppure con bonifico bancario o bollettino postale. Aiutaci anche con il tuo 5 per mille: nella dichiarazione dei redditi firma e scrivi il codice fiscale 94040860226.