29/12/2013

L’aborto ci ha ridotto come il Terzo Mondo

Ogni volta che – giustamente – si celebra con soddisfazione il costante allungamento dell’aspettativa di vita garantito negli ultimi anni in Occidente dai progressi della medicina e dal miglioramento delle nostre abitudini, ci si dimentica – ingiustamente – di includere nel bilancio «una categoria non marginale» della popolazione che invece, se compresa, ridimensionerebbe notevolmente la positività di questo andamento. Questa categoria ignorata dalle statistiche è, scrive il demografo Gian Carlo Blangiardo in un bell’editoriale pubblicato da Avvenire, «il così detto “popolo dei non nati” per scelta volontaria», ovvero le vittime dell’aborto, quei «soggetti la cui durata di vita, avviatasi all’atto del concepimento, è stata pressoché azzerata “ai sensi di legge” e in ossequio ad un discutibile principio di libera scelta».

CENTOMILA IVG. Secondo Blangiardo «una diversa elaborazione dei dati sulla sopravvivenza, giustamente orientata ad accogliere il principio che la vita abbia inizio con il concepimento, aiuterebbe a interpretare le dinamiche in atto con doveroso realismo». Escludendo i casi di aborto spontaneo, infatti, per  il demografo non si può non considerare gli «attuali più di centomila casi annui (e un tempo persino il doppio) di interruzione volontaria della gravidanza (le così dette Ivg), il cui computo, del tutto escluso dai calcoli ufficiali sui livelli di sopravvivenza», come si può chiaramente desumere anche dai grafici di Avvenire riproposti qui sotto, «porterebbe alla rivisitazione del dato sulla durata media della vita e, in ultima analisi, alla sua stessa lettura con toni assai meno trionfalistici».

UN DRASTICO TAGLIO. Negli ultimi trent’anni, spiega lo studioso, «il processo di allungamento della vita si è sviluppato intensamente e regolarmente e (…) ha interessato tutti e tutte le fasce d’età: dagli infanti ai grandi vecchi, al Nord come al Sud». Se per esempio «un neonato maschio aveva nel 2000 un’aspettativa di vita pari a 76,5 anni», nel 2010 lo stesso individuo al suo decimo compleanno di anni davanti a sé ne aveva ancora di 69,8. In un decennio, cioè, «ha consumato solo poco meno di 7 anni del suo “capitale di vita residua”». Tuttavia, questa «generosa elargizione di un’esistenza sempre più lunga» che ha riguardato tutti non fa i conti con «la presenza di un gruppo di sfortunati che sono stati “esclusi” dai benefici del progresso». Osserva Blangiardo: «Se si considerano circa 5 milioni di Ivg registrate a partire dai primi anni Ottanta, a fronte di 19 milioni di nascite, e si calcola, per lo stesso arco temporale, il dato sulla “speranza di vita al concepimento” – usualmente intesa come misura dell’ulteriore durata (media) della sopravvivenza – si ottengono valori che variano dai meno di 60 anni nel 1980 ai poco meno di 70 attuali». Quando insomma il calcolo non inizia più dalla nascita ma dal concepimento, «l’aspettativa di vita registra un drastico taglio».

L’AMARA VERITÀ. «Paradossalmente – prosegue il demografo – l’aggiungere al percorso di vita del concepito i nove mesi nel seno materno determina una riduzione di quasi quindici anni nell’effettiva durata media della sua esistenza. Ciò vale allo stesso modo sia per i maschi che per le femmine e si manifesta, senza apprezzabili variazioni, nel corso di tutto l’ultimo trentennio». E il dato non riguarda solo l’Italia: «L’azione svolta dall’aborto nel togliere anni all’aspettativa di vita risulta chiaramente evidente anche alla luce dei confronti internazionali». L’«amara verità», conclude Blangiardo, è che questo calo dell’aspettativa di vita prodotto dall’aborto – che di fatto, assimila i paesi del Nord del mondo a quelli dell’Africa subsahariana, dove tale aspettativa è appunto fino a venti anni inferiore alla nostra – «è il frutto di decisioni consapevoli e di scelte che, peraltro, si dicono libere e rispettose dei diritti fondamentali».

Redazione di Tempi.it

 

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