26/02/2013

Le femministe italiane stravolgono la legge 194

Recentemente Serenella Fuksia, capolista marchigiana del Movimento 5 Stelle, ha fatto infuriare i saltimbanchi sessantottini del Fatto Quotidiano sostenendo che «la legge 194 è una sconfitta e non una vittoria per tutte le donne [...] L’aborto rappresenta sempre un problema e pertanto dovremmo impegnarci a renderlo evitabile. L’aborto non è un anticoncezionale, talora una certa superficialità porta invece a considerarlo tale [...]. L’obiettivo deve essere non far trovare la donna nella necessità di farlo perchè costretta, magari per mancanza di welfare adeguato».

Le anacronistiche femministe anticlericali di “Se non ora quando”, definite “altezzose borghesi romane la cui principale attività è piazzare le amichette” in politica”, non hanno ancora capito che è proprio la legge 194 a dire quello che ha affermato la Fuksia, si legge infatti che lo Stato ha il compito -tramite i Consultori- di «far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza», che l’aborto «non è mezzo per il controllo delle nascite» e bisogna evitare che «sia usato ai fini della limitazione delle nascite» (lo è stato ribadito anche nel recente convengo organizzato dai docenti delle cattedre di Ostetricia e Ginecologia delle Università di Roma, da cui è emerso questo comunicato).

In poche parole, la legge 194 afferma che l’aborto in Italia non è lecito, tranne l’eccezione di un serio pericolo per la salute fisica o psichica della donna. Lo ha spiegato perfettamente il giurista Francesco D’Agostino, ordinario di Filosofia del diritto e di Teoria generale del diritto presso l’Università degli studi di Roma Tor Vergata, nonché Presidente onorario del Comitato nazionale per la bioetica: «La situazione italiana è questa: esiste una legge sull’aborto che fa eccezione al principio generalissimo della liceità delle pratiche abortive. L’aborto in Italia non è lecito, a meno che la donna non chieda l’applicazione a suo carico di quelle procedure previste dalla legge 194 che rendono legale la pratica abortiva. Quindi, a voler prendere sul serio quella legge, l’aborto in Italia è legale come situazione di eccezione, ed è oltretutto doveroso dare prova che le pratiche previste dalla legge siano state rispettate. In questo senso l’aborto in Italia è una legalizzazione parziale che si incastra nel principio generale della illiceità dell’aborto».

Si vuole invece far credere che la legge permetta di avere completo arbitrio sulla vita che porta nel grembo (“l’utero è mio e decido io”). Si vuole far crede che in Italia l’aborto sia libero e che debba essere considerato un diritto insindacabile della gestante. Ma c’è un altro paradosso nella situazione italiana: «la magistratura», ha spiegato il giurista, «ritiene giustamente responsabili i medici che, con pratiche mediche di qualunque tipo, danneggiano la salute del nascituro; di questo dobbiamo essere soddisfatti e dobbiamo chiedere che si prosegua lungo questa stessa via, però allo stesso tempo al nascituro non è riconosciuta soggettività giuridica. Il paradosso è questo: si difende la salute del nascituro ma non si ha il coraggio di dire che il nascituro è una persona, è una soggetto di diritto, è uno di noi. Da questa contraddizione non si esce, poiché essa, almeno per l’Italia, serve a giustificare una legge come la 194 che, obiettivamente, nonostante le belle espressioni che adopera, è servita a diffondere l’idea che l’aborto sia una pratica affidata liberalmente e discrezionalmente alla volontà della donna. In Italia viviamo cioè in un regime di aborto libero ed insindacabile che non viene avallato dal dettato esplicito della legge 194; come dire, viviamo in una situazione di contraddizione permanente».

Le femministe italiane, al posto di stravolgere la legge 194, dovrebbero difendere la dignità delle donne e ribadire che il corpo non è un oggetto e dunque prendere le distanze dalle Femen, la cui unica attività è mettersi in topless e aggredire chi non la pensa come loro. O per lo meno, spiega Luisella Saro, criticare il fenomeno delle madri surrogate indiane, il cui utero viene sfruttato per poche monete sopratutto dalla lobby gay per sfornare bambini da adottare. Il comitato promotore di Se Non Ora Quando ha scritto nel settembre del 2011: «Chi vuole continuare a tacere, sostenere, giustificare, ridurre a vicende private il presente stato di cose, lo faccia assumendosene la pesante responsabilità, anche di fronte alla comunità internazionale». Sottoscriviamo, rispediamo al mittente e attendiamo risposta.

Fonte: UCCR

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