14/02/2017

“Levi”, l’ultimo libro di Giorgio Ponte

Pubblichiamo un’intervista a Giorgio Ponte, a proposito della sua ultima pubblicazione. “Levi”.

Il brillante scrittore palermitano – milanese autore della commedia romantica Io sto con Marta, ha tendenze omosessuali, ma non è accecato dall’ideologia omosessualista e ha sperimentato la libertà nella verità: la sua testimonianza ha avuto un’ampia eco.

Per molti scomodo, cavalca controcorrente quello che è il pensiero comune dominante, trovando il consenso di numeri crescenti e sempre maggiori di persone con tendenze omosessuali.

L’intervista ci è stata inviata dall’Associazione Lerici Domani, che ringraziamo di vero cuore.

In Levi,  Ponte conferma tutta la sua grande maestria di scrittore dalla vena versatile, capace con grande abilità di viaggiare su universi paralleli tra il presente di Marta ed il passato di Levi. Comune denominatore è la speranza. Levi è un romanzo avvincente, coinvolgente, che fa vibrare le corde del cuore, da leggere tutto d’un fiato. Quindi nel fare i nostri complimenti a Giorgio Ponte non possiamo che augurarvi una buona lettura. Vi ricordiamo che questo è un libro auto-prodotto e lo si può trovare in vendita solo online, in formato digitale su tutti gli store, e in cartaceo solo su Amazon. La sua divulgazione è resa possibile solo attraverso il passaparola dei lettori.

Come nasce l’ispirazione di questo libro?

  • Levi nasce otto anni fa. Durante il liceo e negli anni dell’università avevo abbandonato la scrittura pensando di non essere capace di arrivare fino in fondo alla stesura di un romanzo. Ero da poco tornato da Roma con la consapevolezza di non voler più vivere lì, di non voler proseguire gli studi all’università per la specialistica, e di non voler concludere l’accademia teatrale che avevo cominciato. Tuttavia non sapevo cosa volevo. Nel giro di poco tempo mi ero ritrovato a dover abbandonare tutte le cose che avevo intrapreso e che non mi rendevano felice. Ero di nuovo al punto di partenza. Avevo bisogno di concedermi un periodo di riposo e di riprendere i contatti con le dimensioni sane della mia vita, la mia famiglia in primis. Decisi di rimandare a settembre ogni scelta sul piano professionale. Mi ritrovai quindi con una quantità smisurata di tempo a disposizione. Così pensai: forse posso provare a scrivere di nuovo. Chissà se ne sono ancora capace.

Come è nata la scelta del soggetto?

  • All’inizio doveva essere un esercizio di scrittura. Scrivere richiede molto tempo e io non ero più sicuro di esserne capace, dopo tanti anni. L’idea di affrontare una storia complessa mi paralizzava. Per questo pensai di partire da un soggetto non originale e da un racconto, per limitare gli elementi di difficoltà: uno spazio breve, pochi personaggi e gli elementi base già esistenti. Dovevo solo metterli insieme e riorganizzarli in modo creativo. Scelsi un personaggio secondario del Vangelo e
    immaginai la sua vita prima e dopo l’incontro con Gesù. Ne venne un racconto lungo, di una settantina di pagine. Mi piacque e soprattutto mi piacque molto come mi sentii mentre lo scrivevo.

La scelta del personaggio è stata casuale o in qualche modo ti era vicina?

  • In realtà Levi è stato il terzo personaggio di cui mi sono occupato. Ho scelto personaggi che in quel momento sentivo molto vicini: salvati da una deriva che non avevano scelto e che li stava uccidendo lentamente. Anche io tornato da Roma ero così, mi stavo allontanando da tutte le cose buone e importanti della mia vita, le persone care, la fede. Ho cercato di mettere nella storia tutto il mio vissuto e dal modo in cui mi sentivo mentre scrivevo, ho compreso che quella era la strada. Decisi di ampliare il progetto: non una, ma tre storie, su tre personaggi secondari del vangelo. Di quelli di cui non si conosce neanche il nome, che hanno incontrato solo una volta Gesù. Nel vangelo per ragioni di “economia”, il resoconto degli eventi ha salvato di questi personaggi solo i tratti essenziali, rendendoli quasi delle caricature: il Lebbroso, l’Emorroissa, il Paralitico, il Pubblicano… di loro viene ricordato solo quel male che era stato sanato da Gesù.  Io ho cercato di restituire loro
    un’identità, a partire dal nome: ho voluto immaginare l’universo che portavano dentro, tornando a mostrarli come persone. Nel caso di Levi, l’episodio è talmente piccolo che ne parla un solo evangelista.

A quali lettori è rivolto il tuo libro?

  • Potenzialmente a chiunque. Volevo creare un libro che fosse comprensibile anche per un non credente. Volevo raccontarne il dramma, quella dimensione di umanità che accomuna l’uomo di ogni tempo, al di là del credo.

Quindi hai dato ruolo da “protagonista” a questi personaggi che potremmo definire
“comparse” del racconto evangelico?

  • Sì. Narrativamente parlando, in questo romanzo la “comparsa” è Gesù. È Lui il personaggio secondario, anche se il suo intervento resta cruciale per il compiersi degli eventi. Egli è l’unico che viene mostrato solo attraverso gli occhi di chi lo incontra. I protagonisti non sanno chi sia, non lo conoscono e non lo conosceranno se non per quel singolo giorno in cui le loro strade si sono incrociate.

Quale messaggio volevi trasmettere attraverso questi personaggi?

  • Volevo mostrare il cambiamento generato da un incontro, prima di tutto con la sofferenza. In tutte e tre le storie l’incontro con Gesù viene a compiere qualcosa che è già iniziato prima del suo arrivo, proprio attraverso l’esperienza del dolore. Non è mai possibile trovare una ragione che sia sufficiente a spiegare il dolore. Niente di razionale può “giustificare” il male innocente. Ogni
    tentativo di farlo, manca di rispetto a chi quelle sofferenze le vive tutti i giorni. L’unica cosa che io ho provato a raccontare è che sempre, dentro il male subito esiste una possibilità di vita nuova. È attraverso il dolore infatti, che si aprono nelle vite di questi personaggi strade di salvezza del tutto inaspettate, che nessuno di loro avrebbe immaginato e che forse non sarebbero nemmeno arrivati a riconoscere, senza quell’evento tragico. Non si tratta di dare una spiegazione al dolore, che in questo caso sarebbe comunque una spiegazione crudele: “devi soffrire, per poter apprendere”. Si tratta di mostrare come il male non sia mai l’ultima parola sulla nostra vita, a meno di non ritenerlo tale. Nella mia esperienza è questo che è venuto a mostrare Cristo. Non è venuto a spiegare il dolore. È venuto a viverlo con noi. A passarci in mezzo per vincerlo. Perché con Lui anche noi potessimo fare lo stesso. Dirlo come concetto astratto è catechistico. In questo libro io cerco di
    mostrarlo nella carne di un’esperienza viva.

Dicevi che sono tre episodi. Una trilogia, quindi?

  • Sì, sono tre storie distinte, hanno un’idea comune, ma sono leggibili separatamente. Levi è quella che ho scritto per ultima, la più complessa.

Come mai hai scelto di farla uscire per prima?

  • Inizialmente avevo pensato di pubblicare i tre episodi nell’ordine in cui li avevo scritti. Tuttavia non ero sicuro che fosse giusto uscire con questa trilogia dopo un esordio come quello di Io sto con Marta!, che era un libro comico ambientato nel presente. Temevo che disorientasse il lettore. Perciò un giorno sono andato a messa e ho pregato su questa cosa perché il Signore mi guidasse nel capire quale fosse la scelta giusta. Era un giorno feriale e quando arrivammo al Vangelo, il brano di quel
    giorno era proprio quello dal quale avevo tratto Levi, la terza storia. Lo presi come un segno: quella doveva essere la prima a vedere la luce.

Quali ostacoli hai incontrato, se ne hai incontrati, in questa scelta di dedicarti alla scrittura?

  • Dopo l’estate in cui ripresi a scrivere, a settembre mio padre, pur dicendomi “sicuramente diventerai uno scrittore”, mi chiese nel frattempo di cercarmi un lavoro. Era una richiesta ragionevole, ma io in quel momento avevo un’intuizione dentro di me che andava oltre la semplice ragionevolezza: io sapevo che quella era la strada, come sapevo che le altre non lo erano state. E sapevo altresì benissimo che se in quel momento avessi mollato quel progetto per un lavoro qualsiasi, non avrei scritto mai più. Dovevo difendere questa cosa che stava nascendo faticosamente. Quindi dissi a mio padre che per un anno non avrei fatto altro che dedicarmi a
    questo. E lui, (santo!) inghiottì. L’unico altro impegno che mi presi fu quello di seguire un gruppo di ragazzi che mi fu affidato, nel cammino che seguivo giù a Palermo.

Come mai da Palermo sei arrivato a Milano?

  • Perché per pubblicare questo libro ho fatto poi un master in editoria alla fine del quale ho chiesto uno stage a Milano. Ho passato quel primo anno a cercare un editore. Diversi professionisti lessero sia Levi che l’intera trilogia e tutti mi hanno sempre confermato che il libro valeva, così come pure alcuni editori che, pur rifiutandolo per il tema poco “commerciale”, ne avevano elogiato la scrittura,
    come sarebbe successo dopo anche per Io sto con Marta!. Dopo il primo anno, tornai a Palermo senza nulla di fatto ma con tante esperienze nel mondo del lavoro da cui poi è nata Marta.

Quindi Io sto con Marta! non è stato il tuo primo libro. Come mai la scelta di farlo uscire prima?

  • Ho scelto di puntare su Marta perché come esordio era una storia più semplice da “piazzare”: un romanzo sociale “travestito” da commedia romantica. Il tono leggero e il tema attuale, il precariato, insieme al fatto di far ridere, erano tutti elementi con un potenziale più accattivante per un editore.
    Pensai che sarebbe stato più facile arrivare ai lettori. Alla fine ho amato Marta come amo Levi. Tuttavia non ho mai smesso di aspettare il momento giusto per pubblicare Sotto il Cielo della Palestina. Spero di aver scelto bene.

Un libro comico e uno drammatico: cosa accomuna storie così diverse?

  • Sono tutte storie di Speranza. Il tono, il tipo di storia, il registro, il tipo di arratore, persino i tempi verbali: tutto è diverso fra Marta e Levi. Ma la Speranza è la stessa. Due voci diverse, quasi opposte, per una stessa visione del mondo. Questo è uno dei motivi per cui mi sono chiesto a lungo se pubblicarli dopo Marta: temevo fosse disorientante per il lettore. Tuttavia, a causa del mio impegno pubblico, non potevo non considerare che oggi il mio nome sia associato anche a temi diversi da quelli di Marta, legati alla fede. Perciò ho pensato che un libro del genere adesso non
    sarebbe risultato più così “incoerente”. Era il tempo di restituire queste tre storie che sentivo di aver ricevuto perché fossero donate. Spero che facciano bene a chi le leggerà, così come ha fatto bene a me scriverle. E che i lettori che le ameranno si sentano “responsabili” nel farle conoscere. Poiché un autoproduzione online non può girare ed essere conosciuta se non sono loro a parlarne, a condividere, a recensire, a linkare... loro sono le mani della Provvidenza. Grazie a loro, ai lettori, Dio ha fatto il miracolo con Marta. Ma chi ha detto che un miracolo non si possa ripetere? Io ci credo. Sempre.

Maria Teresa Armanetti

 



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